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Quanta crescita col Recovery Fund? Ipotizziamo di non essere in Italia…

La Banca d'Italia stima l'impatto del Recovery Fund sulla nostra crescita. Sotto ipotesi pressoché eroiche, vista la storia di questo paese

Lo scorso 7 settembre si è svolta alla Camera l’audizione del responsabile del Servizio Struttura economica della Banca d’Italia, Fabrizio Balassone, “nell’ambito dell’attività conoscitiva preliminare ai fini della individuazione delle priorità nell’utilizzo del Recovery Fund”. Interessanti le simulazioni relative all’impatto dei prestiti europei sulla crescita italiana. Me ne servirò per spiegare un paio di cose ai keynesiani di Pavlov che hanno già iniziato a lanciare in aria il cappellino, al grido “vedete che la spesa pubblica fa crescere l’economia?” Certo che sì, figlioli. Resta da capire come e per quanto. Come sempre.

Innanzi tutto, vediamo la stima del risparmio derivante dall’utilizzo dei prestiti Ue, in luogo dell’emissione di Btp:

L’accordo non specifica la durata e il tasso dei finanziamenti concessi dall’Unione europea ai paesi membri attraverso il Dispositivo. Il rendimento sul mercato secondario delle obbligazioni dell’Unione con scadenza residua intorno a 10 anni è pari attualmente a circa -0,1 per cento. Si può valutare che, se tale tasso fosse applicato ai finanziamenti destinati al nostro paese, il pieno utilizzo (per 120 miliardi) dei prestiti del Dispositivo comporterebbe una spesa per interessi inferiore di circa 1,3 miliardi in media all’anno nell’arco di un decennio rispetto a quella connessa con l’emissione di BTP decennali per pari importo (il rendimento per questi titoli è attualmente pari a poco più dell’1 per cento).

Stima spannometrica ma realistica, diremmo. In attesa che arrivino le solite termiti solidali a suggerire come spendere il “tesoretto” degli 1,3 miliardi annui di risparmi (idea: prestiti ponte per Alitalia), c’è anche da quantificare il risparmio aggiuntivo derivante dal fatto che il rimborso di tali prestiti, che verranno percepiti entro il 2026, è previsto entro il 2058. E soprattutto, c’è da tenere presente che l’Italia, con Next Generation EU, è felicemente divenuta prenditore netto di fondi europei. In altri termini, è stata finalmente assimilata ai paesi poveri ed impoveriti.

Mentre ci congratuliamo per questo achievement, come direbbero quelli che hanno fatto il militare alla McKinsey, dobbiamo quindi calcolare, anche qui a realistiche spanne, quanto è il nostro “Taeg“; sapendo che, oltre al tasso nominale di cui sopra, restituiremo meno di quanto ricevuto. Ecco i conti di Bankitalia, partendo da ipotesi dell’Ufficio parlamentare di Bilancio (UPB):

Dal punto di vista dei singoli paesi la struttura temporale dei flussi finanziari è quindi assimilabile a quella di un prestito a lunga scadenza. Per l’Italia, che riceverà dal Dispositivo trasferimenti superiori ai contributi che dovrà fornire per l’aumento delle risorse proprie dell’Unione, si tratta di un prestito a tasso negativo. Se si ipotizza che l’ammontare e il profilo temporale dei trasferimenti e dei contributi italiani siano quelli stimati dall’UPB, tale tasso sarebbe dell’ordine del -2,5 per cento; il risparmio di spesa rispetto all’emissione di titoli di Stato per 87 miliardi (ipotizzando un rendimento medio in linea con quello dei titoli ventennali, attualmente pari all’1,6 per cento) ammonterebbe a circa 3,5 miliardi in media all’anno nell’arco di poco più di un trentennio.

Anche qui, non male un risparmio annuo di 3,5 miliardi. Ci sarà da capire quante Ilva salvare e risanare, dopo aver erogato il prestito-ponte annuale all’Alitalia. Ci sono soldi anche per abbigliamento, prosciutti, gelati, compressori e pezzi di ricambio di avveniristici elettrodomestici bianchi, diciamo.

Veniamo ora alla polpa, cioè agli effetti macroeconomici del piano Next Generation EU. La Banca d’Italia ha utilizzato il proprio modello econometrico ed alcune ipotesi necessariamente semplificatrici. In particolare, si ipotizza che i circa 200 miliardi di fondi Ue, tra sovvenzioni e prestiti, vengano impiegati in modo uniforme, tra il 2021 ed il 2025, ed omogeneo, nel senso che siano interamente destinati a spesa d’investimento. Cioè per circa 41 miliardi annui.

Prima di guardare ai numeri ed agli scenari alternativi date le condizioni di cui sopra è utile sapere che, nel 2019, la spesa italiana per investimenti è stata pari a 40,5 miliardi e che, nel periodo, 2000-2019 è stata in media pari a 43,5 miliardi annui. Ciò premesso, siete pronti? Via:

Nel primo scenario si ipotizza che tutte le risorse vengano utilizzate per attuare interventi aggiuntivi rispetto a quelli già programmati e che questi riguardino integralmente progetti di investimento (…) Le maggiori spese ammonterebbero a oltre 41 miliardi all’anno e potrebbero tradursi in un aumento cumulato del livello del PIL di circa 3 punti percentuali entro il 2025, con un incremento degli occupati di circa 600.000 unità. Va rilevato che questo scenario presuppone uno sforzo notevole in termini di progettazione e di capacità di esecuzione degli investimenti: si tratterebbe di raddoppiare la spesa effettuata nel 2019.

Ve lo traduco? Ma sì: per avere un +3% di crescita, cumulato in cinque anni, dovremo raddoppiare il volume di investimenti rispetto alla media annua storica. Ammesso e non concesso che tutto vada alla perfezione. Ipotesi eroica? Giusto un filo. Del resto, è un modello, no? Vediamo la seconda ipotesi, più lasca e realistica ma non troppo:

Nel secondo scenario si ipotizza che una parte rilevante delle risorse, pari al 30 per cento, venga utilizzata per misure già programmate e che la parte rimanente venga destinata solo per circa due terzi a finanziare direttamente nuovi progetti di investimento. Sotto queste ipotesi gli interventi aggiuntivi ammonterebbero a circa 29 miliardi all’anno, di cui solo 19 per investimenti. L’impatto cumulato sul livello del PIL raggiungerebbe quasi 2 punti percentuali nel 2025.

Quindi, ora avete i numeri. Stilizzati quanto volete, ma una buona base di verosimiglianza. Attenzione, però: serve che questi investimenti riescano a determinare un aumento di produttività, per avere impatto durevole sulla crescita, cioè sulla pendenza della linea storica del Pil. Altrimenti, finito il picco glicemico, la linea mantiene la pendenza originaria, e trasla verso il basso e forse persino più giù.

Questo è l’eterno miraggio ignorante degli italiani e dei loro governi pro tempore: credere che basti fare spesa pubblica per crescere. No. No. No. Ecco perché il dirigente di Bankitalia aggiunge il caveat che verrà inciso sulla lapide di questo paese:

Per contro si possono immaginare scenari con effetti sul PIL più contenuti, nel caso ad esempio di un ricorso solo parziale a Next Generation EU, di una quota maggiore di risorse destinata a interventi già programmati o di una composizione della spesa meno favorevole alla crescita. Inoltre gli effetti ipotizzati presuppongono, come ricordato, l’uso efficiente delle risorse disponibili; l’esperienza suggerisce che affinché ciò avvenga serve una netta discontinuità con quanto osservato in passato.

In parole povere ed impoverite: per cambiare l’Italia dobbiamo cambiare gli italiani. Se pensiamo di ripetere quanto fatto in passato, in termini di spesa pubblica per investimenti, siamo spacciati, vista la quantità impressionante di soldi che ci arriveranno. Altro che Piano Marshall, signori.

Se io fossi cinico, vi direi che mi pare di sentire riecheggiare, in sottofondo, le risate al telefono nella tragica notte del sisma a l’Aquila. Per fortuna non sono cinico.

(Nella foto: la leggendaria stazione di Matera FS)

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