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Quando possiamo parlare di “picco” dei contagi?

Con l’aiuto di Maria Rosaria Gualano (UniTo) e MicheleTizzoni (ISI Foundation) proviamo a fare chiarezza su questo tema cruciale

In queste settimane segnate dall’epidemia di Coronavirus, c’è un concetto che ricorre con insistenza: quello di “picco”. Ma che cos’è esattamente? Come è possibile stabilire e capire quando accade? Quali fattori influenzano l’accelerazione verso il picco e la discesa da esso? A queste e ad altre domande abbiamo provato a dare una risposta con l’aiuto di due epidemiologi: Maria Rosaria Gualano, professoressa associata di igiene e medicina preventiva all’Università degli Studi di Torino, e Michele Tizzoni, research leader presso la ISI Foundation.

 

Innanzitutto, cosa si intende per “picco”?

«Occorre partire – spiega Gualano – dal concetto di curva epidemica: prendiamo un piano cartesiano in cui abbiamo sull’asse X la variabile tempo e sull’asse Y il numero di casi del fenomeno che stiamo misurando. A mano a mano che registriamo sul grafico, per esempio per ogni giornata, il numero di nuovi casi notificati, prende forma la nostra curva, che avrà un aspetto ad “S” allungata».

Questo aspetto della curva è dovuto alle varie fasi dell’epidemia: «La prima parte della “S” ha una concavità rivolta verso l’alto e rappresenta la fase di crescita esponenziale, cioè quella che ha spaventato di più all’inizio dell’epidemia. Passato del tempo, la curva cambia verso, e laddove la sua concavità passa ad essere rivolta verso il basso si ha il punto di flesso». Questo flesso segna l’inizio della diminuzione degli incrementi, che però non va confusa con il decremento: in questa fase, infatti, la curva continua a crescere, ma in misura minore rispetto a prima.

«La fase successiva a questa è proprio quella del picco – prosegue Gualano – in cui si raggiunge il punto di sviluppo massimo della curva e, dopo averlo toccato, inizierà la discesa, facendoci tirare un sospiro di sollievo». Questo però non deve in alcun modo distogliere l’attenzione dalle misure di distanziamento spaziale e di igiene che sono state prese, perché «un effetto di ritorno con una risalita della curva e altre nuove ondate – precisa – sarebbe quanto di più deleterio».

«Nel corso di un’epidemia ci sono poi diverse quantità il cui andamento temporale presenta questo massimo localizzato chiamato picco», aggiunge Tizzoni. «Queste quantità – prosegue – possono essere il numero di nuovi contagi nell’unità di tempo, oppure il numero di coloro che sono attualmente malati, o il numero di nuovi decessi, o di ospedalizzazioni nell’unità di tempo». Tutte queste quantità presentano uno o più picchi, ma è importante sottolineare che variabili come il numero di ospedalizzazioni o di ricoveri in terapia intensiva possano dipendere in modo non lineare dal numero di contagi, a causa di fattori esogeni (come il carico del sistema sanitario e il numero di posti letto a disposizione) che cambiano nel corso dell’epidemia.

Qual è dunque la variabile da osservare per capire quando c’è un picco?

«In generale – spiega Tizzoni – la variabile più comunemente usata per definire il picco epidemico è la curva dei nuovi contagi nell’unità di tempo, cioè l’incidenza della malattia». Si tratta del primo picco che si osserva, in ordine temporale, durante l’epidemia, e precede sempre il picco di coloro che sono attualmente contagiati (che a sua volta precede il picco dei decessi).

 

 

Per il Coronavirus, quindi, le istituzioni si basano sull’incidenza?

Sì, l’incidenza è la variabile mostrata dall’Istituto Superiore di Sanità nel suo bollettino giornaliero sul COVID-19 (qui quello del 13 aprile): al riguardo, Tizzoni rileva che questo bollettino quotidiano «riporta la curva di incidenza con la data di inizio dei sintomi, ed è la curva epidemica “vera” dal punto di vista temporale». In effetti, per quanto in genere questa curva sia molto sottostimata – dal momento che la data di inizio dei sintomi si conosce solo per una frazione del totale dei contagiati – essa «rappresenta al meglio l’andamento temporale dell’epidemia, se assumiamo che la capacità di identificare la data di comparsa dei sintomi sia costante nel tempo». Non a caso la maggior parte degli studi epidemiologici basano le proprie analisi sulla curva dei nuovi casi, a partire dalla data di comparsa dei sintomi.

 

Può esserci più di un picco?

Purtroppo sì. Tizzoni ricorda cosa accadde con la pandemia influenzale H1N1 del 2009, quando«in molti Paesi europei ci fu un picco estivo, relativamente di bassa intensità, seguito da un picco di incidenza molto più elevato in autunno». Le tempistiche con cui si susseguono queste ondate epidemiche dipendono da molti fattori, come per esempio la stagionalità del virus e le misure di intervento adottate.

 

Ci sono modelli che ci permettono di capire se c’è già stato un picco o quando sta per arrivare?

«Per vedere se c’è stato un picco – risponde Tizzoni – non serve un modello, ma è piuttosto necessario analizzare la curva temporale della metrica di riferimento: è però importante interpretare correttamente i dati, che di solito sono “rumorosi” e inevitabilmente incompleti, ed è meglio analizzare curve con cadenza settimanale, poiché i dati giornalieri sono influenzati maggiormente dal ritardo nelle diagnosi e possono subire forti fluttuazioni».

Il modello matematico-statistico serve invece nelle fasi iniziali dell’epidemia per prevedere in anticipo quando potrebbe esserci il picco: «L’impiego di questi modelli nello studio delle patologie infettive – spiega Gualano – risale agli anni ’20 del secolo scorso, quando nascono i modelli SIR, che dividono la popolazione sulla base di tre stadi consecutivi: Suscettibili, Infetti e Rimossi (pari alla somma di guariti, immuni e deceduti)». Questa è la modellistica più semplice, mentre oggi «esistono delle metodologie computazionali molto più sofisticate che ci permettono di raffinare le analisi e affrontare anche modelli più complessi tramite software specifici».

Questi modelli presentano dei limiti?

Sì: in statistica si dice che all models are wrong but some are useful«In effetti – ricorda Gualano – i modelli devono basarsi su robusti presupposti (“assumptions”), oltre che sul saper stimare correttamente le variabili in gioco», che per esempio nel caso del Coronavirus possono riguardare l’impatto delle misure di lockdown messe in atto. Alla base di tutto, inoltre, «ci devono essere sempre dati affidabili (o, come direbbero gli anglosassoni, “reliable”)».

 

Possono esserci picchi diversi in territori diversi? Come stimarli?

Come spiega Tizzoni, «l’aspetto geografico riveste un ruolo importante, e il picco epidemico si può osservare in momenti diversi in diverse località, anche all’interno dello stesso Paese: date diverse di inizio dell’epidemia e diverse politiche di intervento possono modificare la traiettoria epidemica a livello locale».

La stima, però, può rivelarsi complessa, perché «la qualità dei dati raccolti deve essere uniforme sul territorio nazionale, ma a volte così non è e i dati locali possono subire distorsioni che tendono a ridursi quando si aggregano i numeri a livello nazionale. In particolare, quando si considerano unità territoriali molto piccole – come comuni poco popolosi o quartieri – i numeri dei nuovi contagi possono essere troppo bassi per identificare un vero picco».

Nel grafico che segue, osserviamo come la variazione giornaliera dei nuovi positivi al Coronavirus registri picchi differenti tra due regioni italiane, il Veneto e la Sicilia, che hanno un numero di abitanti molto simile (poco meno di 5 milioni): se in Veneto più picchi si susseguono tra metà marzo e inizio aprile, non così sembra essere in Sicilia.

 

 

Nei diversi Paesi ci sono state diverse curve e picchi in momenti diversi: da cosa dipendono l’accelerazione e il rallentamento verso il picco?

Come spiega Tizzoni, in effetti «la dinamica dell’epidemia in ogni Paese è unica e dipende da diversi fattori: contano le condizioni di partenza (dove l’epidemia parte prima, ci aspetta di vedere un picco prima), le misure di intervento (misure più efficaci possono ritardare il picco epidemico), ma anche la struttura demografica, l’estensione territoriale, la densità di popolazione, la risposta del sistema sanitario».

«Del resto – rileva Gualano – la pendenza della curva è espressione della velocità di propagazione», pertanto tutti i fattori che hanno impatto sull’aumentare o diminuire il contagio possono influenzarla.

Gualano richiama poi il concetto cardine di triade epidemiologica: i tre fattori che permettono lo scatenarsi dell’epidemia sono «la presenza del patogeno, le condizioni dell’ospite e i determinanti ambientali. In questo caso il patogeno è un virus, e in quanto tale la sua capacità di riprodursi dipende totalmente dall’incontro con più esseri viventi possibile». Quindi, se impediamo questo incontro agendo sugli altri due fattori della triade (osservando le strette norme igieniche e il distanziamento spaziale), è possibile interrompere la catena dei contagi e appiattire la curva. «Guardando i grafici di questi giorni – conclude Gualano – possiamo dire di esser riusciti in questo “flatten the curve”: stiamo infatti osservando il famoso “plateau” di cui si parla, ossia la smussatura della curva dei casi».

Fonte del grafico: www.flattenthecurve.com

 

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