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Quando le stragi diventano romanzi

Ho sempre diffidato dei giornalisti quando, dimenticando il loro mestiere e i necessari confini delle loro competenze, cessano di essere quello che sono e si autoinvestono della qualifica di storici. Li apprezzo di più se trattano la storia come giornalisti che sanno in partenza quanto ciò che vedono possa correre sulla cresta delle cronache. 

 

Molto meno stimo quei professionisti che dimenticando di essere cronisti, si trasformano in sacerdoti della verità. E per avvalorare l’investitura di sacralità che nessuno gli ha dato dicono che studiano i casi di cui si occupano dai tempi della guerra di Troia. Coprono in tal modo gli “strafalcioni” dovuti alle loro distorsioni visive. Come succede a taluno che per spiegare la strage di Piazza Fontana vede tutte le cose a due a due: due bombe, due taxi, due passeggeri, due borse, due anarchici e due fascisti, o un fascista accoppiato a un anarchico tanto per raggiungere sempre il misterioso numero due. Perciò sono d’accordo con Adriano Sofri (leggi il libro online "43 anni")

Sono semplicemente dei visionari, degli innamorati di se stessi, persone che hanno qualche potere, e amano passare il tempo a guardarsi allo specchio per autocompiacersi e sentirsi beati nel loro narcisismo. Ma la verità non è mai dietro l’angolo e richiede, per essere raggiunta, una grande umiltà, poco rumor di piazza o di cortile, poca spettacolarizzazione. Come tutte le scoperte che silenziosamente si effettuano nel chiuso di un laboratorio. La verità non è né nelle versioni ufficiali, né nelle espressioni delle maggioranze, né, tanto meno, in tutto ciò che appare. Infatti l’evidenza è spesso ingannevole, le maggioranze procedono per spinte soggettive, i tribunali sono talvolta impotenti e talaltra incapaci di definire una verità nella sua interezza. Così le vittime rimangono doppiamente vittime.

I giornalisti, sono convinto, possono dare un grosso contributo alla conoscenza, se fanno bene il loro mestiere. In caso contrario possono nuocere alla verità. Se, smettendo i loro panni, ne indossano altri, anche se questi gli vengono troppo larghi e dànno loro l’aspetto alterato di ciò che non sono, come i clown di un circo equestre.

Allora non li sopporto proprio. Specie se mettono le dita nelle tragedie e nei lutti delle famiglie e degli uomini, riducendoli a pretesto di narrazioni senza senso, finzione, falsificazione madornale. L’ultima, appunto, la strage di Piazza Fontana, e il recentissimo Romanzo di una strage. Ottimo regista Marco Tullio Giordana, ma carente nel suo rispetto della verità dei fatti. L’avevamo già notato ne I Cento passi su Peppino Impastato. Un film dove, per amore di un modello estetico e politico precostituito, erano state attribuite al militante di Democrazia proletaria una scuola e una cultura moderata e appiattita che Peppino Impastato non aveva proprio. Ma i nostri sono tempi in cui la verità non è quella reale, ma quell’altra, meno antipatica forse, che chiamiamo virtuale.

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