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Quando il migrante è ateo

Non credere comporta maggiori rischi e minore protezione. Ecco perché l’impegno delle associazioni atee e umaniste può fare la differenza per tanti esseri umani.

Nell’approcciare la tematica del fenomeno migratorio, che sia sotto il profilo social-umanitario o piuttosto sotto quello giuridico, non è possibile prescindere dalle – peraltro crescenti in numero e violenza – discriminazioni e persecuzioni su base religiosa sparse per il mondo e che solo per alcuni, anche se per molti, si traducono in richieste di protezione e asilo.

La nozione di religione associata a fenomeni persecutori è stata definita a livello internazionale dall’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) con riferimento alla Convenzione di Ginevra del 1951 e a livello europeo a partire dalla direttiva 2004/83/CE8. Chiarito dall’Unhcr come, pur essendo la Convenzione non dettagliata sul punto, la protezione valga anche per chi non crede o si rifiuta di aderire a qualsivoglia confessione, nella nozione di religione fornita dalla direttiva europea pertanto gli stati sono obbligati a ricomprendere «le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte».

E fin qui, tutto bene. Libertà religiosa come libertà anche di non averne alcuna, di religione. E a giudicare che in più di dieci paesi nel mondo il dichiararsi non credenti può comportare la pena di morte, in oltre quaranta il carcere, non si può dubitare di come sia una protezione doverosa e necessaria. E anzi, ci si aspetterebbe una eco maggiore e un sostegno rinforzato.

Invece, appunto, non finisce qui. Per il riconoscimento dello status di rifugiato infatti non bisogna dimostrare solo il fondato timore di persecuzione a matrice religiosa ma anche il rapporto che lega il richiedente alle dottrine qualificate come oppresse. E l’onere della prova, per quanto attenuato dalle disposizioni stesse (è possibile, ad esempio, ricorrere a esperti, è obbligatorio fornirsi di adeguati interpreti, non si richiedono competenze teologiche, eccetera), si appalesa oggettivamente aggravato nel momento in cui è richiesta la dimostrazione di una eventuale non-fede.

Se persino l’optimum della normativa internazionale non è in grado di fornire una equanime tutela, a ciò dobbiamo aggiungere la considerazione pragmatica di come gli appartenenti alle confessioni di minoranza possano spesso contare su comunità organizzate di correligionari, tanto nel paese di origine quanto soprattutto in quello di arrivo (dove minoranze possono essere a loro volta maggioranze). In Italia poi la messa in pratica dell’“aiutiamoli a casa loro” ha prodotto la sconcertante istituzione di un fondo, con una dotazione di due milioni di euro per ciascuno degli anni 2019 e 2020 e di quattro milioni di euro annui a decorrere dal 2021, da destinare a interventi di sostegno diretti alle popolazioni oggetto di persecuzioni nelle aree di crisi… solo se appartenenti a minoranze cristiane. A proposito del sostegno rinforzato di cui sopra: attenzione a scegliere la confessione giusta, in caso di pericolo di vita!

A ciò si aggiunga il fatto che anche le principali ong e istituzioni nazionali e sovranazionali tendono a non considerare affatto, o nella migliore delle ipotesi a non comprenderne le aggravanti specificità, le discriminazioni persecutorie di differente pesantezza a carico dei non credenti, ove invece hanno settori se non dipartimenti dedicati alle specifiche confessioni. Ove a volte si difende la religione prima della libertà dell’individuo.

L’avanzata poi del multiculturalismo spicciolo e la barcollante laicità delle istituzioni creano in soprammercato le condizioni affinché sia impossibile ottenere nemmeno tutela, ma anche semplice tolleranza, ancor più dalla propria comunità di origine quando questa è, come quasi sempre accade, molto religiosamente orientata.

Questo è uno dei settori dove maggiormente si avverte l’esigenza di costituire una rete coesa di rapporti e di rappresentanza dei non credenti, a prescindere dalle indiscutibili differenze che la non sottomissione a dogmi precostituiti porta nelle differenti filosofie. Ecco perché l’Uaar è da sempre sostenitrice della campagna Protect humanists at risk (a cui è dedicato questo numero), tanto da aver organizzato nel 2018, a 70 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, una intera giornata dedicata alla difesa del diritto di non credere, con tra gli altri eventi la presentazione alla sala stampa della camera dei deputati del Freedom of Thought Report a cura della consorella Humanists International.

Sempre come Uaar partecipiamo ormai da un biennio alle consultazioni volute dal Comitato interministeriale per i diritti umani presso il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, nell’ambito dell’Universal Periodic Review (Upr) in seno alle Nazioni Unite. L’Upr infatti, procedimento creato nel 2006, richiede un esame dello stato dei diritti umani di tutti i 192 membri dell’Onu a cadenza quadriennale, ed è possibile quindi per questo tramite far pervenire istanze non altrimenti rappresentate anche in ambito internazionale.

L’Uaar dove può interviene anche su richieste specifiche. Abbiamo seguito, assistito, consigliato e talvolta patrocinato singoli casi di atei e agnostici discriminati. Un cittadino del Gambia, letteralmente cacciato di casa e dal villaggio per i suoi studi e il suo crescente ateismo, è stato con orgoglio nostro socio; ma anche, di converso, abbiamo ottenuto per via giudiziale, e prima di un caso simile poi balzato agli onori delle cronache, le nozze di un ragazzo italiano con una migrante alla quale l’ambasciata del paese di origine si rifiutava di rilasciare qualsivoglia documento utile senza previa conversione all’islam del promesso sposo.

Certo, piccole cose, piccoli passi. Ma fuor di retorica, anche una sola persona più libera, e più libera di non credere, merita i nostri sforzi. Insieme è davvero il caso di dire che possiamo fare la differenza, insieme possiamo aumentare il volume della nostra voce, soprattutto se sta chiedendo aiuto.

Adele Orioli


Articolo in anteprima dall’ultimo numero di Nessun Dogma – Agire laico per un mondo più umano. Per leggere la rivista associati all’Uaarabbonati oppure acquista subito il quinto numero di Nessun Dogma in formato PDF.

 

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