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Quando i giornalisti sono più disonesti dei politici

Intervista pubblicata sul quotidiano "L'Ora di Palermo" al prof. Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark. Ricercatore dell'Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto.

Prof. Musacchio, secondo Lei cosa significa oggi essere intellettualmente onesti per un giornalista?

Sono fermamente convinto che l’onestà intellettuale sia un atteggiamento morale e interiore che per un giornalista dovrebbe rappresentare la normalità. Attenersi ai fatti vuol dire trattare nello stesso modo chi ti sta simpatico e chi antipatico. Sfortunatamente quasi tutti i giornalisti, piccoli o grandi che siano, sono schierati e sottoposti alla politica e all’editore di turno. Per me, da sempre, essere coerenti ha significato affermare una tesi e sostenerla con fermezza e non il giorno dopo rinnegarla per convenienza sconfessando chi magari ha avuto fiducia in te.

Che responsabilità hanno i giornalisti nell’Italia di oggi?

I giornalisti (non tutti ovviamente) hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe politica. Ho sempre pensato alla figura del giornalista come il “marcatore” del potere, il controllore per eccellenza, il garante dei cittadini. Un ruolo che in molte parti del mondo esiste, mentre, in Italia va scomparendo del tutto e la prova risiede nel fatto che il nostro Paese perde ventiquattro posizioni nell'annuale classifica mondiale sulla libertà di stampa. So che in molti contesteranno questo mio assunto ma credo che la stampa sia ancora troppo poco indipendente rispetto al potere inteso in senso lato. In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo vero mestiere: denunciare e raccontare la verità.

Qual è il prezzo che un giornalista paga per difendere la propria onestà intellettuale?

L’estrema punizione è senza dubbio il licenziamento ma non mancano sanzioni quali l’estromissione, l’annullamento, l’emarginazione, del resto, di casi famosi ne è piena la storia (emblematico è il caso Biagi-Rai). Se ti metti contro i poteri forti sai a priori che pagherai un prezzo molto alto che in alcuni casi coincide persino con l’eliminazione fisica (cfr. Mino Pecorelli). 

Crede che le nuove generazioni di giornalisti possano cambiare le cose?

È molto difficile anche se ho molta fiducia nei giovani. Il problema però è un altro. In tutte le categorie, e quindi anche nel giornalismo, regna sovrano il nepotismo. Prima il merito aveva più spazio, oggi, tra due aspiranti giornalisti impreparati e uno preparatissimo, se ci sono due posti e i primi hanno la raccomandazione entrano loro e il meritevole va fuori dall’Italia o resta disoccupato. Una via d’uscita possibile sarebbe il web, dove si potrebbe realizzare qualcosa di nuovo e soprattutto di indipendente. Quest’ultimo percorso però non è tra i più facili.

Cosa ne pensa dei finanziamenti pubblici ai giornali?

La legge in origine doveva consentire di realizzare un giornale anche a chi non aveva una forza economica alle spalle ed era cosa buona e giusta. Poi purtroppo è andata a finire come vediamo oggi: degenerazione totale. Il finanziamento pubblico ai giornali costa al cittadino italiano quasi un miliardo di euro l’anno. L’editoria può, quindi, a pieno titolo essere definita un’editoria di Stato. Il lettore non conta più nulla per l’editore di un giornale, contano i finanziamenti pubblici, la pubblicità e i gadget.

Come si potrebbe cambiare la situazione odierna?

Un tempo sui giornali scriveva gente come Pier Paolo Pasolini, Moravia, Pirandello che, anche se erano invisi al potere potevano avere un loro spazio libero. Pasolini, ad esempio, scrisse cose improponibili oggi sulle pagine del Corriere della Sera, opinioni eretiche che non troverebbero spazio in nessun giornale. Questo tipo d’intellettuale è esistito in Italia per molto tempo e oggi più che mai sarebbe necessario al nostro Paese. Forse sbaglio, ma non riesco a individuare personaggi di questo calibro e anche se ci fossero di certo, non troverebbero spazio nei quotidiani d’oggi. Questo è uno dei drammi del giornalismo contemporaneo.

Cosa ne pensa delle scuole di giornalismo?

Non sono un esperto della materia né tantomeno un giornalista, ma, a mio avviso, le scuole servono a ben poco, semplicemente perché sono convinto che il giornalismo non sia una cosa che si possa insegnare. Il giornalista per assolvere la sua funzione più intima, oggi, dovrebbe impedire lo svilupparsi della corruzione, frenare la criminalità organizzata, controllare e vigilare sulle opere pubbliche fondamentali, reclamare il funzionamento dei servizi sociali, tenere allerta le forze dell'ordine, sollecitare il funzionamento della giustizia, richiamare all’ordine i politici al buon governo e al bene comune. Questa dovrebbe essere l’essenza del vero giornalismo e penso che non si possa insegnare in nessuna scuola: è innata.

Crede che l’informazione in generale sia valida oggi?

Credo che l’informazione in senso stretto sia giunta al capolinea. Non la professione, ma l’informazione in se stessa. Non credo che sia una morte definitiva, però per gli anni a venire sono molto pessimista, non per difetto, ma per eccesso, nel senso che ci sono talmente tante notizie e spesso contrastanti che diventa difficile conoscere la realtà di un fatto. Oggi regna sovrana la confusione quindi per molti è difficile individuare la verità.

Qual è il peccato peggiore che può commettere un giornalista?

La cosa peggiore che può fare un giornalista è non essere onesto e cioè non raccontare la realtà dei fatti. Solo questo è il peccato imperdonabile che può commettere.

Un'ultima domanda questa volta molto personale: qual è il peggior errore che Lei non si perdonerebbe se fosse un giornalista?

Non essere coerente con me stesso e con le mie idee. È il tradimento che farei a me stesso la cosa peggiore che non mi perdonerei mai e che devasterebbe la mia esistenza: tradire se stessi, vuol dire non essere uomini ma, come sosteneva Sciascia, appartenere all’ultima categoria del genere umano che lui indicava con un epiteto che preferisco non dirle.

 

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