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Quei misteriosi pentagrammi di colore

Ormai non mi sfuggono. Nella mia città li conosco quasi tutti e nelle altre città, bloccato nel traffico o in attesa di un semaforo verde, li vedo dovunque si trovino, su un grigio muraglione, sotto un cavalcavia, lungo i squallidi muri che costeggiano una ferrovia, sulla parete di un terrazzo al primo piano. Sfrecciano anche davanti agli occhi, istoriati sul vagone di un treno o di una metropolitana.
 
Erano solo macchie informi colorate, fino a quando non ho cercato di capire: parlo dei “graffiti”, quella esplosione di lettere intrecciate ed annodate tra di loro in cui spesso l’argento sfuma nel nero e il rosso ciliegia si miscela col giallo dando vita a fantasmagorici giochi di colori che creano una composizione policroma inutilmente decifrabile.

E’ un fenomeno che caratterizza il nostro tempo, in equilibrio instabile tra una diffusa illegalità metropolitana ed una espressione ermetica della ricerca e della riaffermazione di se stessi.
 
Non parlo naturalmente dei segni informi, delle sigle monocromatiche che si susseguono in maniera ottusa e ripetitiva sui muri puliti, sui pali, sulle cabine telefoniche, sui cartelli stradali o sulla saracinesca chiusa di un negozio. In questo caso non vi è alcun dubbio che gli autori sono vandali frustrati in cerca di visibilità che segnano il territorio come i cani segnano il loro.
 
Gli uni alzano la mano con il pennarello per violentare con uno sgorbio ciò che non gli appartiene, gli altri alzano la gamba posteriore per lasciare ai loro simili il segno indelebile del loro maleodorante passaggio. Il messaggio è lo stesso: ci sono anch’io. 
 
Eppure i graffiti moderni traggono la loro origine proprio da una sigla. Pare che a Los Angeles la usassero i lustrascarpe per non ritrovare ogni giorno il proprio angolo occupato da altri. Nacque così la consuetudine di segnare il posto con un simbolo o con una sigla. Molti anni dopo, a Manhattan, un ragazzino di 17 anni, di origine greca, comincia a segnare i vagoni delle metropolitane con una strana scritta, “TAKI 183”, disegnata con un grosso pennarello. La cosa non passa inosservata se lo stesso New York Times nel 1971 ne fa oggetto di un articolo.
 
Un po’ alla volta questa forma di rappresentazione grafica si diffonde e diventa patrimonio comune del sottoproletariato di colore, di origine latina o africana, che abita i quartieri più desolati, ai margini della metropoli in senso reale e metaforico. A Brooklyn e nel Bronx vengono bombardati di colore i muri delle periferie urbane, delle fabbriche, degli edifici fatiscenti e disabitati. Dalle sigle si passa alle scritte gigantesche, con lettere panciute e colori sempre più aggressivi, quasi a simboleggiare la rabbia degli autori che armati di bombolette tentano di dare una identità a quelle borgate tanto degradate e diverse dalla opulenza e dal lindore del centro urbano.
 
Milioni di turisti in visita alla Grande Mela non possono non vedere e travasare in Europa quelle immagini colorate. Le grandi capitali, come in un gigantesco effetto domino, vengono contaminate, Parigi diventa il centro europeo dei graffiti, seguita da Londra, Monaco, Amsterdam. A Milano, e poi in Italia nei primi anni ’80, i graffiti diventano una forma di messaggio politico appannaggio soprattutto dei movimenti studenteschi e dei Centri Sociali.
 
I graffiti esplodono in prossimità o in concomitanza di alcuni megaconcerti e diventano, per i loro autori, sinonimo di trasgressione, di malcontento, di libertà espressiva, tanto da rappresentare – per altro verso – un’emergenza per tutte le amministrazioni pubbliche. Qualche città tenta di arginare il fenomeno cercando di cooptarlo: New York, Parigi e Londra mettono a disposizione dei writer migliaia di metri quadri di spazio, su vecchi muri o palazzi in disuso.
 
Altre città, come Milano, seguono la strada della tolleranza zero. Un senatore leghista presenta un disegno di legge che prevede pene e sanzioni più che triplicate ed alimenta una caccia al graffitaro che farebbe intascare al cittadino che lo denunzia parte della contravvenzione. I risultati sono invero molto modesti.
 
E’ la riprova che il fenomeno va affrontato in maniera diversa per cercare di capirlo e di contenerlo. La tolleranza zero è condivisibile per quelle forme di vandalismo che prendono di mira i musei, i monumenti, i treni, le grandi vetrate pubbliche o private, i muri delle abitazioni,etc. Alle sanzioni di carattere pecuniario andrebbe aggiunto l’obbligo di ripulire ciò che si è imbrattato, come forma di lavoro socialmente utile.
 
Un discorso a parte meritano i graffiti-murales, veri giochi di colore che danno una dignità a tanti muri scalcinati e scrostati. Queste forme espressive devono essere oggetto di studio perché possono essere recuperate verso scopi più intelligenti e creativi. Sempre a Milano,per esempio, i commercianti di alcune zone, per evitare che le saracinesche dei negozi venissero deturpate da sigle informi, hanno invitato i writer a decorarle interamente ottenendo il duplice risultato di caratterizzare le strade ed evitare di tinteggiare di continuo, perché i disegni di un writer, in genere, non vengono coperti da un altro writer.
 
 
Se da un’indagine dell’ Eurispes condotta su un campione di circa 6000 ragazzi tra i 12 ed i 19 anni è risultato che i graffiti (non quelli vandalici) piacciono al 76% degli interpellati e il 44% di questi li considera una forma d’arte, allora il problema non può essere rimosso. Come tutti i fenomeni di massa va studiato, sia pure come forma d’arte minore, ne vanno esaminati i risvolti e la valenza sociale, per evitare che degeneri per assurgere solo a simbolo di riappropriazione esclusiva e vandalica del territorio.

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