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Primo maggio: dal 1886 al 2018

Cronologicamente, la prima festa del lavoro, si svolse a Parigi nel 1889 commemorando gli 11 lavoratori che, tre anni prima, a Chicago, avevano perso la vita scioperando affinchè, la giornata lavorativa, fosse portata da sedici ad otto ore.

Provando a fare una riflessione su questo tema, non si può non prendere le mosse da un articolo del 1953 del noto sindacalista, antifascista pugliese Giuseppe di Vittorio.

Di Vittorio qualificava il lavoro come uno dei pochi elementi, se non l’unico, capace di “nobilitare” l’esistenza dell’individuo assecondandone le crescenti necessità dignitarie.

Lavoro, mutilato in questa sua alta aspirazione, dal fatto di non poter esprimere il suo potenziale di benessere sociale e democratico in modo libero, in quanto compresso e subordinato al Profitto dei pochi.

Da questa castrazione, derivavano a suo dire, mostruosità prive di logica, presenti ancora oggi, quali: immense estensioni di terre lasciate intenzionalmente incolte, masse enormi di lavoratori disoccupati, tonnellate di grano e merci buttate a mare o lasciate marcire pur di mantenere elevati i prezzi.

Tutto questo mentre, contemporaneamente, dall’altro lato, milioni di uomini, donne e bambini, allora come oggi, muoiono per malattie legate alla denutrizione o sono soggetti a condizioni di vita miserrime.

Contestualizzando al presente il tema, direi che, se in passato, attraverso il contributo di lotte e vite umane, innumerevoli traguardi erano stati raggiunti, oggi, stiamo tornando pericolosamente indietro, barattando quelle conquiste strutturali con finti e circoscritti bonus e premialità.

Sempre più persone sono disoccupate, sempre più, il profitto e la ricchezza si concentrano nelle mani di pochi potentati, sempre più persone, per necessita o genetica subalternità, si adattano a lavori sempre meno tutelati e dignitosi.

Su questi temi, i lavoratori, anziché badare, egoisticamente, ognuno al proprio specifico interesse, dovrebbero costruire un fronte comune, massimizzando la capacità contrattuale dei lavoratori universalmente intesi, sia attivi che attualmente espulsi o mai acquisiti al mondo produttivo.

Su questa più o meno alta propensione a battersi per il bene collettivo, credo si misuri, con le dovute eccezioni e senza generalizzare, la differenza tra i lavoratori attuali e quelli del 1886.

 

Antonio Martino

Santa Croce di Magliano - Campobasso

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