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Politica e religione negli Usa: cosa possiamo aspettarci da Joe Biden

Quattro anni di prepotente e disastrosa amministrazione, culminata nel botto finale dell’assalto a Capitol Hill, hanno permesso a Donald Trump di essere considerato, oggi, il peggior presidente nella storia degli Stati Uniti. La pensano così sia i suoi connazionali, sia il resto del mondo libero, che ha accolto il cambio di inquilino della Casa bianca con una soddisfazione mai così tanto malcelata. Nemmeno Stalin avrebbe osato sperare che l’immagine degli Usa potesse cadere così in basso.

Quale conseguenza indiretta, l’Inauguration day è stato seguito con un’attenzione senza precedenti da tutti coloro che si attendono un cambio di passo. Ma ha lasciato perplessi molti laici: non soltanto per il rito del giuramento sull’antica Bibbia della famiglia Biden, ma anche per il discorso di insediamento. Joe Biden ha citato non soltanto la Bibbia, ma anche sant’Agostino; ha invitato a formulare una preghiera silenziosa per le vittime della pandemia; ha menzionato cinque volte l’anima, quattro volte il ‘sacro’ e una volta gli angeli; ha sostenuto che la sua è «una sola nazione sotto la protezione di Dio», che la «fede mostra la via dell’unità» e che «le preghiere di secoli ci hanno portato fino ad oggi»; ha ricordato «gli eroi che hanno donato l’estremo atto di devozione» e che ora «riposano nella pace eterna»; e ha concluso dicendo che, «sostenuti dalla fede, spinti dalla convinzione e devoti l’uno all’altro e al Paese che amiamo con tutto il cuore, possa Dio benedire l’America e possa Dio proteggere le nostre truppe».

Niente male, per una prolusione di soli ventuno minuti: con quale coraggio potremo nuovamente lamentarci di Sergio Mattarella? È stato un discorso così insolito, per le nostre orecchie, che il navigato ex democristiano (e ultimo segretario Ppi) Pierluigi Castagnetti si è sentito di twittare quanto segue: «Mai ascoltato in una cerimonia civile solenne tante volte l’evocazione e l’invocazione del Dio benedicente. Senza che nessuno sospetti l’assenza di laicità. Una modalità diversa di intenderla. In ogni caso toccante anche per chi si considera non credente».

Non esattamente, caro Castagnetti. Il Center for Inquiry, una delle associazioni più importanti degli atei Usa, ha infatti sostenuto che «è spiacevole che questi messaggi di unità non riconoscano gli americani non religiosi. Così tanti inviti alla preghiera – e la presunzione di una fede religiosa – ci escludono. Tuttavia, daremo anche noi il massimo, mentre continuiamo a promuovere l’uguaglianza dei non credenti». Toccati sì, quindi, ma dalla mancata attenzione nei confronti di atei e agnostici, dal diluvio di riferimenti religiosi, dall’assenza di ogni richiamo alla scienza, dalla necessità di accontentarsi di una sparuta menzione della «ragione».

Quanto alla laicità, Castagnetti dovrebbe pur sapere che negli Usa (e in generale nel mondo anglosassone) è considerata una sorta di esotismo che i francesi, non si sa bene come, sono riusciti anche a esportare altrove. Semmai, come i francesi, gli Stati Uniti sono anch’essi separatisti. Il discorso di Biden conferma dunque una volta di più che, nonostante i vocabolari, la laicità non coincide perfettamente col separatismo.

Negli Usa, solo i non credenti (e nemmeno tutti) si definiscono secular, che è la traduzione inglese di ‘laico’. Al contrario, il separatismo è proprio un’invenzione americana e, come se non bastasse, deve molto alla religione. Fu un predicatore protestante, Roger Williams, a ideare la metafora del «muro di separazione tra il giardino della religione e la landa desolata del mondo». Come si può intuire, nella sua visione non era tanto lo stato che doveva proteggersi dalla religione, ma il contrario. Qualche ragione tuttavia ce l’aveva, il buon Williams. I primi coloni erano spesso dissidenti religiosi in fuga da una monarchia che si identificava in una confessione cristiana: a capo della chiesa anglicana c’era il re in persona. Che discriminava, e spesso perseguitava, tutti coloro che non ne facevano parte.

In America nacquero dunque numerose colonie religiosamente orientate: ogni specifica comunità cristiana ne creava una, e tutte erano intolleranti verso le altre. Per farle coesistere in uno stato federale fu quindi indispensabile che nessuna predominasse – e l’unico modo di farlo, come intelligentemente compresero i padri fondatori (molti dei quali erano pragmatici illuministi), era di separare nettamente lo stato dalle chiese. Non riuscirono però a separarlo anche dalla fede: il nuovo e ambizioso stato avrebbe cercato l’unità attraverso il minimo comun denominatore cristiano.

La Bibbia, per esempio, rimase una fonte morale imprescindibile – anche quando occorreva giustificare la schiavitù. E questa posizione di privilegio per il cristianesimo (soprattutto protestante) viene tuttora mantenuta, e si traduce in sconti di pena per i pastori che abusano di bambini, o per i genitori che lasciano morire i figli perché credono di guarirli con le preghiere. E perdura quindi anche la posizione di subordinazione dei non credenti, a cui diverse leggi statali impediscono l’accesso a incarichi pubblici, e che sono presenti al congresso in proporzioni enormemente più basse rispetto alla loro forza numerica. Il principio orientatore della società Usa è dunque la libertà delle chiese. Il muro di separazione non è un fine: è soltanto uno strumento utile ad assicurarla.

Nel 1967 il sociologo Robert Bellah ha definito tale sistema una «religione civile americana» fatta di simboli, credenze e riti (come, per l’appunto, i discorsi inaugurali dei presidenti), la cui un’impostazione è slegata da una singola fede e a cui possono quindi idealmente appartenere tutti i cittadini. Ma non è vero. Vi si possono senz’altro riconoscere i protestanti, con qualche riserva i cattolici, con diverse riserve gli altri monoteisti. Stop.

Ed è comunque un sistema che è andato progressivamente in crisi prima con la guerra fredda e il maccartismo, poi con l’ascesa al potere di Ronald Reagan (alleato alla destra cristiana) e del born again George W. Bush. Il partito repubblicano è diventato sempre più antilaico, senza però che per converso quello democratico diventasse autenticamente laico. L’avvento di Donald Trump, che del tradizionale rapporto della politica con la religione ha preso soltanto il peggio, è stata infine la ciliegina avvelenata sulla torta. Ha aperto le porte della Casa bianca ai fondamentalisti, li ha ricoperti di incarichi, onori e privilegi, ha calpestato il mondo scientifico e ha riempito la Corte suprema di integralisti, mettendo così a serio rischio le due grandi conquiste civili dell’ultimo mezzo secolo: il diritto all’aborto e il matrimonio egualitario. Il suo è un nazionalismo cristiano estremista più prossimo a Putin (e soprattutto a Bolsonaro) che a quello a cui siamo abituati in Europa, ma che comunque (grazie anche agli immensi finanziamenti provenienti d’oltreoceano) abbiamo imparato a conoscere anche noi, in Polonia come in Ungheria – confidando sempre che uno stellone laico ci immunizzi da un governo dei ringhiosi Meloni & Salvini.

È per questo che, nonostante tutto, la vittoria di Biden è stata accolta con un generale sospiro di sollievo. L’abbiamo già scritto: non è clericale, Biden, ma non è nemmeno laico. La sua presidenza rimarca ostentatamente il ritorno a una idilliaca “normalità” del passato, e la rappresentazione della “normalità” passa anche attraverso un’inaugurazione tradizionale – robusta patina religiosa compresa. L’Atlantic, pur apprezzandolo, ha giustamente definito il suo discorso «un sermone». Che costituisce peraltro un notevole arretramento anche rispetto a quello di Obama del 2009, che aveva esplicitamente citato i non credenti. E dire che il numero dei nones è ulteriormente e spettacolarmente salito in questi dodici anni, e costituisce ormai la principale base elettorale dell’ingrato Joe.

Non possiamo dunque aspettarci molto di più della semplice menzione della ragione nel discorso inaugurale? Non necessariamente. Si spera che, oltre che un cristianesimo “civile”, il nuovo presidente torni a propugnare un reale separatismo, e che difenda i diritti delle donne e dei gay (anche se in questo caso occorre confidare soprattutto nella vice, Kamala Harris): un primo segnale è già stato dato, nominando ministro dei trasporti Pete Buttigieg, che all’audizione per la conferma ha peraltro presentato e ringraziato suo marito. Ed è da da valutare positivamente che nel suo discorso abbia rifiutato «la cultura in cui i fatti stessi vengono manipolati e persino fabbricati», e che in altra sede abbia dichiarato di affidarsi a consiglieri che fanno riferimento alla scienza. Un approccio che trapela anche dai suoi primi ordini esecutivi e dalla decisione di appendere nello studio ovale un quadro di Benjamin Franklin, che manifesta la volontà di riannodare i legami anche con i padri fondatori illuministi.

Allo stesso modo, appare involontariamente benaugurante il messaggio inviato dall’arcivescovo di Los Angeles José Gomez, presidente della conferenza episcopale statunitense: le congratulazioni e l’invito a lavorare insieme si accompagnano, in modo palesemente stridente, alla «sottolineatura che il nostro nuovo presidente si è impegnato a perseguire politiche che promuoveranno i mali morali e minacceranno la vita e la dignità umana, soprattutto nell’ambito dell’aborto, della contraccezione, del matrimonio e del genere». Essendo rivolto al secondo presidente cattolico nella storia, è un passaggio che non potrà non essere gradito da chi ritiene che anche i dettagli contano.

Piaccia a no, quello che accade negli Stati Uniti riguarda anche noi. È razionale che si debba rimandare a chi prenderà il posto di Biden la speranza che si costruisca un paese più laico e rispettoso di chi non crede. Ma è lecito attendersi già ora una svolta nella direzione di una politica basata sulle evidenze. In fondo, in tutto questo, una delle poche cose certe è che le giaculatorie cristiane di quattro anni fa non sono state per nulla efficaci, per gli Stati Uniti.

Raffaele Carcano

Foto:Gage Skidmore/Wikimedia

Questo articolo è stato pubblicato qui

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