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Più che una pandemia globale, questa è un’opportunità epocale

Antecedente al disorientamento e al panico, la conseguenza più atroce di un’epidemia è indiscutibilmente la carestia, che spesso è sinonimo di precarietà: professionale, economica, primariamente esistenziale; dunque, una mancanza di certezze che lede alla ordinarietà collettiva e ne mina le fondamenta. 

Questo è ciò che si sta sperimentando negli Stati Uniti da quasi un mese e in buona parte del Mondo - Cina, Italia, e Spagna, solo per menzionare i Paesi maggiormente colpiti - da un trimestre inoltrato: una lancinante ondata di sconcerto e di scoramento, sullo sfondo di un terremoto sanitario senza precedenti nell’era post-moderna.

Il COVID-19 è un’intimidazione alle nostre vite, oltre che un pericolo per il nostro sistema immunitario: è l’esasperazione del timore che la normalità - concetto nebuloso, che può avere miriadi di letture soggettive, e non un’accezione assoluta - venga mortificata e messa sotto scacco, alimentando ulteriormente l’ipotesi catastrofica di un futuro surreale, quasi anti-utopico. Su tale assunto, prende forma la strategia comunicativa dei media, che cede sempre alla tentazione dello sciacallaggio e la antepone al dovere di un’informazione imparziale e matura.

Il linguaggio della carta stampata e delle emittenti televisive si rimpolpa di ammonizioni e di raccomandazioni, predicando alla solidarietà ed inneggiando alla speranza. Ecco che l’equazione è presto composta: carestia-solidarietà-speranza, quale continuum che rappresenti un palliativo che sedi e poi dissolva le paure della gente. Speranza che riecheggiava con vigore anche nelle stanze papali proprio l’altra sera, quando Bergoglio ha goduto dello spazio ritagliatogli dal “TG1” per introdursi spiritualmente nelle case degli italiani e per infondere loro buoni auspici e benedizioni pontifice.

Nonostante le evocazioni all’ottimismo siano nell’immediato un antidoto più efficace di qualsiasi vaccino, la speranza è l’alibi dell’incoscienza, giusto per richiamare alla memoria Pasolini. Allora, perché oltre ai moniti, ai proclami, alle omelie, sulla scia di una situazione che sembra silenziarci ed atrofizzarci ogni giorno di più, non tentiamo di ricavare un’esperienza di apprendimento e di rigenerazione? “Bisogna cambiarlo, questo Mondo, Fra Ciccillo: è questo che non avete capito”: lapidario, nel rivolgersi ad un Totò in saio e in versione catecumenale, è il San Francesco sceneggiato proprio da Pasolini nel capolavoro “Uccellacci e Uccellini” del 1966, in una metafora della battaglia alle diseguaglianze - anche letterarie e culturali.

Quindi, perché non rimettere in discussione tutto? A fronte di un’emergenza planetaria che ha inginocchiato economie e filiere produttive, commerci ed interscambi, e ha finanche allentato la morsa della finanza e dei suoi borsini, per quale motivo non pensare di interrogarci sul fatto che, forse, l’intoccabilità di un capitalismo ossessionante e libertino non sia più un dogma? Prima ancora di pretendere a gran voce - qui negli States - l’esclusione della Cina dai tavoli di qualsivoglia trattativa di mercato, e di imputare - in Europa - all’Euro e alla globalizzazione le piaghe della contemporaneità, sarebbe opportuno uno sguardo d’insieme più completo.

Sebbene una sorta di proibizionismo 3.0 nei riguardi di sistemi e strumenti commerciali, e di Paesi coinvolti in essi, appaia necessaria, l’osservazione è un’altra: è il modello capitalistico mondiale - a prescindere dalle forme con le quali si è palesato nel corso dei Secoli - che ha bisogno di essere finalmente sindacato e di assumere altre fattezze. Pure che si sia generalmente creduto che una struttura improntata su una finanzarizzazione spregiudicata e strafottente fosse infrangibile, adesso è il momento di mescolare nuovamente le carte e concepire un ordine che metta al centro l’uomo e non i mezzi di fabbricazione, il soggetto e non l’individuo, la sostenibilità e non la frenesia. Che ci piaccia o meno, il Mondo è già cambiato, ed è in una fase tale per cui l’azzeramento è dietro l’angolo: forse, più che una pandemia, questa è un’opportunità epocale.

Foto di Gerhard Bögner da Pixabay 

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