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Perché proteggere gli umanisti a rischio nel mondo

Il filo rosso che unisce Mubarak, Roberto e Mashal

Giugno 2014. Immaginate di essere un giovane trentenne di nome Mubarak, nato e cresciuto a pane e islam nello stato di Kano, una roccaforte musulmana nel nord della Nigeria. 

Dopo un travaglio interiore di dieci anni, trovate finalmente la forza per fare coming out e dichiarare la vostra apostasia. Sapete bene che la sharia prevede la pena di morte per quelli come voi – i murtadeen, gli apostati – ma voi ormai sentite che è venuto il momento di fare questo passo. Vi rivolgete quindi a vostra madre, dichiarandovi in un sol colpo ateo, umanista ed ex-musulmano.

Vostra madre si sente svenire. Impaurita, si rivolge a vostro padre, il quale a sua volta si rivolge a uno psichiatra. Nel giro di qualche giorno venite prelevati di forza dalla vostra casa e vi ritrovate sedati nel letto di una clinica psichiatrica. È il 13 giugno. Il dottore vi dice che «avete bisogno di dio», perché «persino in Giappone hanno un dio». Voi non capite, ma non potete ribellarvi. Il dottore aggiunge che tutti gli atei sono «mentalmente disturbati», che «negare la storia di Adamo ed Eva è un’illusione». Voi continuate a non capire.

Per fortuna, fuori dalla clinica, c’è qualcuno che si sta occupando di voi. Sono gli attivisti dell’Associazione umanista nigeriana, capitanati da Leo Igwe, i quali hanno allertato Humanists International a Londra. In pochi giorni il vostro nome è su tutti i giornali, dentro e fuori la Nigeria. C’è chi vorrebbe la vostra liberazione, chi invece vorrebbe la vostra esecuzione. Dopo 18 giorni di petizioni e pressioni internazionali, il 3 luglio 2014 venite liberati. Tutto bello, bellissimo. Sì, forse: per adesso.

Aprile 2020. Siete lo stesso Mubarak, ma con qualche differenza: vi siete sposato, vostro figlio è appena nato e adesso siete il presidente dell’Associazione umanista nigeriana, la stessa che vi tirò fuori da quella clinica. La vostra storia ha fatto il giro della Nigeria (e del mondo), ispirando tanti altri umanisti, nigeriani e no, a fare coming out come voi. Ma il vostro attivismo dà fastidio a molte persone, troppe. Uno studio di avvocati musulmani vi querela per aver «insultato il Profeta» su Facebook. Ed è così che, il 28 aprile, la polizia bussa alla vostra porta e vi arresta, senza dirvi il perché.

Luglio 2020. Sono passati 80 giorni dal vostro arresto. Siete in prigione, ma non sapete quale. Vorreste vedere il vostro avvocato, ma non ve lo lasciano fare. Vorreste sapere di che reato venite accusati, ma ogni udienza viene rimandata per futili motivi. Per fortuna che, fuori dalla prigione, gli umanisti di tutto il mondo stanno lottando per voi – ma voi questo non lo sapete, visto che l’ultimo contatto con il mondo esterno è stata una telefonata di tre minuti il 29 aprile, prima che vi sequestrassero il cellulare.

Questa è, a oggi, la storia di Mubarak Bala, ancora in carcere mentre scrivo questo articolo. Mubarak, seppur in prigione, continua a essere il presidente degli umanisti nigeriani – l’equivalente del nostro segretario Uaar, Roberto Grendene. Qual è la principale differenza tra Roberto e Mubarak? La fortuna. Quella di essere nato in Italia, un paese in cui l’apostasia non è un reato, in cui nonostante tutto possiamo dirci apertamente atei, agnostici e umanisti, e in cui la blasfemia non è più punita col carcere, bensì solo con una multa.

Lo vedete anche voi che, al netto delle differenze politiche e geografiche, gli umanisti italiani e quelli nigeriani combattono la stessa lotta: quella per la ragione, la laicità e la libertà di pensiero. Ma gli umanisti nigeriani – e quelli pakistani, e quelli sauditi, eccetera – rischiano la pelle in questa lotta, noi no. Ed è per questo che abbiamo una sorta di responsabilità morale nei loro confronti: perché noi siamo nati a Gaeta, Bologna, Roma, Palermo, ma saremmo potuti nascere a Islamabad, Teheran, Il Cairo, o Kano, proprio come Mubarak.

Cosa fare allora per aiutare Mubarak e gli altri umanisti a rischio nel mondo? Aspettare che il cammino dei diritti umani faccia il proprio corso non si può: le teocrazie perseguitano atei e umanisti ogni giorno, e noi dobbiamo agire adesso, non fosse che per «mettere in salvo i corpi», come scriveva Camus in Né vittime né carnefici. L’alternativa è dunque quella umanitaria, prima ancora che umanista, ed ecco allora che posso finalmente introdurre la campagna #ProtectHumanistsAtRisk di Humanists International.

Per chi non lo sapesse, Humanists International è una ong che lavora per difendere globalmente i diritti delle persone non credenti. Potete immaginarla come l’unione di tutte le Uaar del mondo se volete. Qui da Londra facciamo tante cose: promuoviamo la visione umanista, facciamo lobbying alle Nazioni Unite, finanziamo i progetti umanisti delle nostre organizzazioni membro (inclusa l’Uaar), coordiniamo campagne internazionali come #EndBlasphemyLaws per abolire le leggi sulla blasfemia ovunque, pubblichiamo ogni anno il Rapporto sulla Libertà di Pensiero e poi, last but not least, proteggiamo gli umanisti a rischio in tutto il mondo. Vediamo come, nel dettaglio.

Ogni settimana riceviamo numerose richieste d’aiuto. Solo nei primi sei mesi del 2020 ne abbiamo ricevute 70, metà delle quali arrivano dai soliti cinque paesi: Iran, Iraq, Arabia Saudita, Bangladesh e Pakistan, che da solo colleziona il 24% delle richieste. Ovviamente non c’è da sorprendersi, visto che questi cinque paesi puniscono la blasfemia e l’apostasia ora con la morte, ora con la prigione.

Le richieste d’aiuto ci arrivano da mille parti: e-mail, Facebook, Twitter, e persino WhatsApp. Una volta ricevute, elaboriamo le richieste con un sistema chiamato “Coordinated Response”, in cinque fasi.

La prima fase consiste nel verificare l’attendibilità della richiesta. Non raramente infatti riceviamo richieste da “non-umanisti” (cristiani, hindu, musulmani, eccetera) nel qual caso reindirizziamo prontamente la richiesta verso altre ong come Christian Solidarity Worldwide, giusto per fare un esempio. Spesso riceviamo richieste anche da persone che si fingono umaniste, con l’obiettivo di ottenere un vantaggio economico o, peggio, per infiltrarsi nella nostra rete e identificare altri umanisti a rischio – sì, succede anche questo…

La seconda fase consiste nell’ottenere il consenso da parte dell’umanista a rischio per agire a suo nome. È un passaggio fondamentale, visto che, dal momento in cui prendiamo in carico la richiesta, ogni nostra azione (ogni e-mail, lettera, post) rappresenta un potenziale rischio per l’umanista in questione.

La terza fase consiste nel creare un briefing dettagliato e affidabile dell’umanista a rischio, che serva da punto di riferimento per tutti i soggetti coinvolti nella campagna: organizzazioni membro, avvocati, altre ong, governi, diplomatici, ambasciatori, relatori speciali delle Nazioni Unite, eccetera. Per capire di che si tratta, vi invito a dare un’occhiata a due briefing attualmente aperti: quello di Mubarak e quello di un altro “famoso” umanista a rischio, Mahmoud Jama Ahmed, professore universitario somalo condannato per blasfemia per aver detto che pregare non serve a scongiurare la siccità (sic!).

La quarta e la quinta fase sono quelle più difficili. Si tratta innanzitutto di coordinarsi con i soggetti appena menzionati, per poi riuscire effettivamente a salvare l’umanista con ogni mezzo possibile: trasferendolo in un rifugio sicuro all’interno del proprio paese, ad esempio, in attesa di ottenere asilo politico in un paese estero – procedura, questa, incredibilmente complessa e che richiede un investimento enorme in termini di tempo e risorse; facendo pressione internazionale sui paesi oppressori, per fargli capire che l’attenzione mediatica globale è su di loro; supportando economicamente gli umanisti a rischio, per permettergli di sopravvivere in clandestinità; portare i loro casi alle Nazioni Unite a Ginevra, eccetera.

La cosa assurda è che soltanto a una percentuale bassissima dei nostri casi possiamo dare risalto mediatico. Tra di noi lo chiamiamo “il paradosso degli umanisti a rischio”: esistono, sono perseguitati, ma non ne possiamo parlare. Il rischio è infatti di inasprire la persecuzione nei loro confronti, motivo per il quale la maggior parte del nostro lavoro è svolto in silenzio e “dietro le quinte”. Perché associare il nome di un “blasfemo” o di un “apostata” con quello di un’organizzazione apertamente non-credente come la nostra significa rendere quella persona ancora “più blasfema”, facendogli compiere una “seconda apostasia” agli occhi di quelle teocrazie che vedono il nostro lavoro come l’intromissione dell’Occidente in casa loro.

Ora, i tempi per salvare un umanista a rischio sono lunghissimi, e non sono rari i momenti di deprimente stallo in cui sembra non ci sia nulla da fare. Ma la perseveranza e il coraggio nella maggior parte dei casi hanno premiato il nostro lavoro, anche e soprattutto grazie al supporto dei tanti umanisti che hanno fatto una donazione alla nostra campagna di fundraising – l’Uaar nel 2018 donò ben 5.000 euro, non dimentichiamocelo.

Dicevo che la perseveranza premia. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo contribuito a mettere in salvo Gulalai Ismail (attivista umanista e femminista del Pakistan, accusata di blasfemia e terrorismo, adesso rifugiata politica negli Stati Uniti), Mohamed Cheikh Ould Mkhaitir (attivista umanista e anti-schiavista della Mauritania, imprigionato per sei anni in attesa dell’esecuzione per blasfemia, adesso in Francia come rifugiato politico), Mohamed Hisham (attivista ateo e Lgbt egiziano, famoso per essere stato cacciato malamente da un programma televisivo proprio in quanto ateo, adesso rifugiato politico in Germania) e tanti altri umanisti tratti in salvo di cui ancora oggi non possiamo fare il nome, per motivi di sicurezza.

Eppure c’è poco da festeggiare. Devo purtroppo chiudere questo articolo su due pensieri dolenti, al limite del nichilismo. Il primo ci riporta al punto di partenza di questo articolo, e cioè a Mubarak e a tutti quelli che, come Mubarak, da mesi o da anni sono in prigione o in clandestinità a causa del loro attivismo umanista: Raif Badawi, Soheil Arabi, Sherif Gaber, Mahmoud Jama Ahmed, eccetera.

Il secondo pensiero va invece a quelli che non ce l’hanno fatta. Gli umanisti che non hanno fatto in tempo a chiedere aiuto, o quelli che non siamo riusciti a sottrarre ai loro aguzzini: Narendra Dabholkar, razionalista indiano ucciso nel 2013; Avijit Roy, marito di Bonya Ahmed, ucciso a colpi di machete nel 2015 durante una fiera del libro in Bangladesh; le decine di blogger atei del Bangladesh, sterminati nello stesso modo e nello stesso anno; H Farook, razionalista indiano ucciso per strada a 31 anni, nel 2017, reo di gestire un gruppo WhatsApp ateo; Mashal Khan, umanista pakistano accusato di blasfemia e ucciso a 23 anni dai suoi compagni di studi nel campus universitario, davanti alle telecamere degli smartphone.

Mashal su Facebook aveva il mio stesso nickname: “umanista”. Come me non voleva che una cosa: la libertà, in ogni sua forma. Ma io adesso sono qui, libero di scrivere questo articolo, lui invece non c’è più. È in nome di tutti i Mashal Khan del mondo che vi invito a sostenere il nostro lavoro.

Aggiornamento del 24 luglio. La polizia di Kano si è rifiutata di mettere Mubarak in contatto con i suoi avvocati, ignorando deliberatamente l’ordinanza di un magistrato. Nel frattempo le udienze sono state sospese fino a ottobre per la pausa estiva: Mubarak rischia così di rimanere in carcere per sei mesi in detenzione arbitraria, senza essere stato formalmente imputato di nulla.

Giovanni Gaetani


Vi proponiamo un articolo dalla nuova uscita del bimestrale dell’Uaar, Nessun Dogma – Agire laico per un mondo più umano. Per leggere la rivista associati all’Uaarabbonati oppure acquista subito il quinto numero di Nessun Dogma in formato digitale.

 

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