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Perché nessuna autorità vuole giustizia per Giulio Regeni

Continuano le dichiarazioni vuote che auspicano “giustizia per Giulio”. Nessun argomento serio in quelle quotidiane dell’inconsistente ministro degli Esteri, ma anche in quelle dell’amministratore delegato dell’ENI, Claudio Descalzi, che astrattamente potrebbe pesare un po’ di più.

Minacciare oggi di richiamare l’ambasciatore fa solo ridere: se si voleva raggiungere qualche effetto su un’opinione pubblica pochissimo informata (in Italia e ancor più in Egitto) bisognava non solo minacciarlo ma farlo clamorosamente subito, appena verificato che i nostri poliziotti dopo una settimana non avevano ricevuto la pur minima informazione. Allora aveva ancora un senso chiedere i filmati prima che venissero cancellati e i tabulati.

La sospensione dell’incontro di imprenditori italo-egiziano a cui partecipava il ministro Guidi sarebbe stata ben più efficace se associata a una minaccia di bloccare tutti i contratti, ma nessun capitalista italiano poteva condividere una simile misura dato che l’interesse dei nostri è ben maggiore di quello dei partner egiziani.

Quanto ai giacimenti di Zohr, difficile immaginare che l’ENI possa minacciare seriamente il proprio ritiro dall’affare per motivi morali. Non siamo gli unici interessati ai giacimenti scoperti dall’ENI e se avessimo avuto la minima volontà di ottenere davvero giustizia per Giulio, il governo italiano avrebbe dovuto sollevare la questione con i governi ugualmente interessati al giacimento di Zohr (come la Spagna e Israele), per chiedere di avere un atteggiamento comune, e diffidandoli dal ricorrere a giochi sporchi con Al Sissi. Tuttavia l’ENI ha un tale curriculum di crimini ambientali e di corruzione di governanti, che è difficile immaginare che sia credibile una sua protesta.

Le lamentele del governo italiano sono state fievoli e inconsistenti, perché hanno rinunciato subito a un’altra leva: il ritiro clamoroso dei super investigatori italiani (teste di cuoio di polizia, carabinieri, servizi, ecc.). Per giunta la loro passività di fronte al prolungato rifiuto di collaborare delle autorità egiziane ha fatto pensare che tra loro ci potesse essere qualche collega e complice dei torturatori della scuola Diaz o di qualche altra impresa più modesta ma dello stesso genere, e che comunque non si trovassero così male al Cairo senza far niente.

Il ministro della Difesa Roberta Pinotti che nella questione poteva pesare, si è sprecata in frasi generiche come: «Ci aspettiamo in questo senso la massima collaborazione da parte dell’Egitto» oppure «Il governo italiano chiede all’Egitto un’azione molto approfondita e sincera».

Lo spettacolo di rappresentanti dei governi europei che agiscono come venditori senza scrupoli che fanno la fila per incontrare dei dittatori (non solo Al Sissi) è abituale e già di per sé disgustoso, ma sappiamo che in particolare le forniture di armamenti (da usare prevalentemente contro il proprio popolo) sono un ottimo affare economico soprattutto per i produttori. Comunque la sospensione o interruzione del rifornimento di armi a un regime fondato sull’esercito potrebbe essere una minaccia più convincente del richiamo di un ambasciatore.

Ma oggi la questione è ben più complicata (e scandalosa) del puro rapporto economico. Il generale Al Sissi non è un cliente qualsiasi. È il pilastro dell’operazione di riconquista della Libia. Il governo di Tobruk, definito di solito come “l’unico riconosciuto internazionalmente” anche se non è meno illegittimo di quello di Tripoli, è sorretto in primo luogo proprio dall’Egitto. L’Italia, anche per soddisfare le velleità di protagonismo di un corpo di alti ufficiali, ha preteso la guida dell’operazione, ma ha bisogno che l’intervento venga formalmente chiesto da un governo di coalizione alla cui costruzione stanno alacremente lavorando i suoi uomini, civili e militari, come il generale degli alpini Paolo Serra. Ma Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti ed Egitto hanno ormai più radici del nostro paese in Libia. Quindi, ben più esperti e tenuti in esercizio dai ripetuti interventi nelle loro ex colonie, sono già sul campo centinaia di quadri appartenenti alle forze speciali francesi (ma anche a quelle britanniche e statunitensi).

Il governo italiano, che pur con qualche dubbio ed esitazione spera di poter utilizzare questa impresa a fini propagandistici interni, e ha bisogno di riconoscimenti internazionali del “nostro ruolo”, deve fare i conti quindi con diversi concorrenti. Ad esempio dato che per rivendicare il ruolo di “Guida” nella missione NATO antimigranti è stata impegnata la portaerei “Cavour”, e la consuetudine vuole che il ruolo di nave ammiraglia spetti alla più grande, la Francia ha fatto arrivare nel Mediterraneo la sua portaerei nucleare “Charles De Gaulle”, più lunga di 110 metri e più larga di 15 rispetto alla “Cavour”, e che è arrivata nell’area scortata da una fregata egiziana, naturalmente di fabbricazione francese, la “Tahya Misr”. Fuori discussione dunque il ruolo dell’Egitto nell’operazione banditesca che si prepara in Libia, anche per la sua funzione di collegamento con un amico, socio (e cliente) inseparabile come lo Stato d’Israele.

Se non si preparassero altri lutti e la trasformazione di quel che resta della Libia in un allevamento di terroristi pronti a colpirci in casa per vendicarsi della nostra intrusione, questa corsa ad assumersi la responsabilità della guerra farebbe pensare a una farsa.

Sugli italiani, la vergogna non solo di essere trascinati in un’impresa così pericolosa da governanti irresponsabili e da una casta militare famelica, che aspetta un po’ di ipotetica gloria per rivendicare aumenti della spesa bellica, ma di apprendere solo dalle dichiarazioni del Segretario di Stato americano alla Difesa, John Carter, cosa si sta preparando in Libia. I nostri ministri, dalla Pinotti in giù, ripetono bugie pietose e inverosimili, e fingono di aspettare da un governo libico (che non c’è) la “spontanea richiesta” di intervenire.

Poveri genitori di Giulio, se sperano di ottenere giustizia da questi personaggi. 

Illustrazione di Gianluca Costantini

Questo articolo è stato pubblicato qui

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