• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > Perché continuare a lavorare in Italia?

Perché continuare a lavorare in Italia?

Mentre la crisi impone a tante aziende di chiudere i battenti e altre trasferiscono altrove le proprie lavorazioni, questa è la domanda a cui nessuno pare voglia provare a rispondere.

Se non mettiamo le imprese in condizione di guadagnare il giusto, rispettando pienamente le leggi (comprese quelle fiscali) siamo spacciati. Non si tratta di diminuir le tasse alle aziende ma di render loro più facile, in tutti i sensi, pagarle. La farraginosità del nostro sistema fiscale, per iniziare, oltre alla disastrosa inefficienza della nostra pubblica amministrazione, costituisce un costo aggiuntivo che il nostro sistema produttivo non può più permettersi. Troppe norme esistono solo per giustificare l'esistenza di controllori che, nei fatti, non controllano nulla; troppi atti amministrativi non hanno altro scopo che quello di fornire lavoro a burocrati che costerebbero di meno se pagati semplicemente per fare nulla.

Facile capire come si sia determinato l'attuale stato di cose, quali siano state le complicità tra aziende teoricamente vessate, ma nei fatti lasciate libere di fare quel che volevano, e forze politiche che, in omaggio alla condanna del guadagno, tanto cattolica quanto comunista, hanno approvato leggi e norme così numerose ed astruse da rendere ricattabile chiunque, anche il più scrupoloso degli amministratori. Gli adempimenti fiscali, in particolare, sono talmente complessi che nessuno può essere sicuro di non finire nei guai, se è visitato dalla Guardia di Finanza.

Il mercato del lavoro dimostra in modo lampante l'inefficienza ed ingiustizia del nostro sistema. A fronte di garanzie, peraltro del tutto teoriche, che non trovano riscontro negli altri paesi industrializzati, e che riguardano comunque solo una minoranza dei dipendenti italiani. Gli stipendi nel nostro paese sono bassissimi, ormai da fame, se non vi fossero le reti familiari ad aiutare i poveretti costretti a sopravvivere, magari dopo aver pagato un affitto o un muto, con i frutti del proprio lavoro.

Il costo del lavoro troppo basso, a dimostrazione di quanto sia stupido prendere scorciatoie, è la principale causa, udite udite, della scarsa competitività delle nostre imprese. E’ stato questo a consentire loro di tirare innanzi sino ad ora continuando a fare i prodotti di sempre con i metodi ed i macchinari di sempre, ma è pure stato questo a far crollare il nostro mercato interno e a ritardare qualunque innovazione.

Il pericolo cinese? Ma ci sono paesi, vedi la solita Germania, che registrano un attivo nella bilancia commerciale con la Cina, mentre, più in generale, l'Europa resta un continente fortissimo nelle esportazioni. Tedeschi, olandesi e gli stessi francesi, però, non hanno reagito alla sfida della globalizzazione diminuendo i propri salari reali, ma facendo meglio di quanto già facevano ed entrando in settori in cui non erano presenti per il semplice motivo, vedi quello delle turbine per l'energia eolica i cui prodotti mi stanno davanti agli occhi, che non esistevano.

Qualcuno, davanti a vicende come quella di Alcoa, vorrebbe una nuova IRI. Penso anche io che potrebbe servire, soprattutto per fornire ad aziende d'interesse strategico i capitali necessari a rinnovare gli impianti e migliorare i propri prodotti.

Non possiamo però pensare, a meno che qualcuno voglia sognare un'economia di piano di tipo sovietico, di affidare allo Stato il compito di tirar fuori il paese dalle sabbie mobili. Soprattutto, Stato o no, non possiamo pensare di farlo in modo diverso che diventando più competitivi, a meno che si voglia fare dell’Italia una nuova Albania, sganciata da qualunque logica di mercato.

Si tratta, alla fine, di trovare una risposta alla domanda iniziale. Una mano ce la dà la natura; sarebbe infinitamente più piacevole, a pari condizioni, lavorare e vivere a Bari, Palermo o Cagliari che a Düsseldorf o a Manchester. Il resto spetta a noi, creando un sistema paese in cui si possa lavorare e guadagnare, anche moltissimo, senza rischiare d’infrangere le leggi ad ogni passo, senza aver bisogno di santi in paradiso e senza la necessità di controllori amici che chiudano uno o due occhi. Anziché sognare di fare dell'Italia un paradiso sudamericano (esistono paradisi in Sudamerica?), insomma, dovremmo cambiare quel poco che basterebbe a farla diventare un normalissimo paese europeo.

E’ in fondo quello che in questi giorni chiedono, con parole diverse, Confindustria e sindacati, ed è quel su cui dovremmo tutti essere d’accordo.

Sfortunatamente, troppi di noi al cambiare preferiscono il sognare.

 

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares