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Parola di Neet: dai un euro al laureato che chiede l’elemosina...

Arrivano i tremila tirocini (retribuiti dai 500 a 1300 euro lordi al mese) per la cosiddetta “generazione NEET” (Not in Education, Employment or Training), ovvero quei ragazzi che non hanno un lavoro, non studiano e non seguono corsi di formazione o aggiornamento professionale. Occasione ghiotta.

 

 

Ci offrono nel girone dei dannati tremila tirocini della durata di sei mesi con un rimborso spese da 500 euro lordi mensili pagato dallo Stato. Un incentivo all’inserimento nel mondo del lavoro, secondo il Governo; ma nello stesso tempo uno specchietto per le allodole e una condizione affatto entusiasmante che pure, in questa crisi, lo diventa.

Tremila tirocini di sei mesi – da 38 ore settimanali, poco meno di una normale giornata lavorativa da otto ore al giorno esclusi sabato e domenica – finanziati con una borsa di 500 euro al mese, a favore di giovani laureati tra i 24 e i 35 anni che al momento non studiano né lavorano, purché residenti in Campania, Puglia, Sicilia e Calabria. Circa 200 dei tirocini totali possono essere svolti anche in altre regioni, con un rimborso spese che sale fino a 1300 euro mensili. Da intendersi, in entrambi i casi, come cifre lorde.

Le offerte sono poco entusiasmanti, per non dire di quanto sia poco entusiasmante essere pagati 500 euro al mese; eppure per migliaia di ragazzi lo è. Ti dimentichi di quanto sangue hai buttato sui libri e sei pure felicissimo di questi soldini. Un modo per tamponare, in attesa di qualcosa che sia, se non definitivo, dignitoso.

Non mi vergogno a dire che ho partecipato al bando solo per i 500 euro al mese.

La società ci ha riempiti di “niente”, ci ha derubati della ricerca di senso, della fiducia, della speranza, della possibilità di credere in noi stessi e nei nostri sogni.

Il tempo indeterminato non esiste e il precariato è un limbo nel quale, prima o poi, ci si finisce tutti. È la disamina del giovane italiano medio, con una laurea in tasca, la disoccupazione alle porte e un futuro non meglio imprecisato, se non proprio indefinibile.

Le lauree, nell’odierno mondo del lavoro, non contano, semplicemente. È questo il pensiero comune di molti giovani laureati appena usciti dagli atenei, che si ritrovano di punto in bianco a fare lavori assolutamente non attinenti al proprio percorso di studi, oppure a inventarsi una carriera, o ancora a presenziare a colloqui ridicoli con pretese ridicole. Oppure ad affidarsi ad agenzie interinali che li portano per qualche mese a fare esperienza in posti in cui non avranno futuro: i più gettonati? Sempre loro, ovviamente: i call center.

In realtà questi giovani un lavoro ce l’hanno: consiste proprio nel cercare lavoro e spesso è una mansione che impegna 3-4 ore al giorno, tra siti di annunci, giornali specializzati e scampagnate in città con una bibbia di curricula sotto braccio. Oppure si entra nella giungla dei concorsi, spesso rimandati o prorogati, per i quali si studia, si fanno test e poi si scopre di non aver passato la selezione successiva per una virgola di voti.

Negli annunci di lavoro la laurea è sempre più frequentemente un titolo referenziale non richiesto. Proprio per questa ragione il giovane italiano medio appena laureato è sfiduciato: tra le mani un percorso di studi che resta solo un’esperienza con la quale non farci nulla. E le Università, sotto questo aspetto, non aiutano. Non che debbano prendere per mano i loro studenti e portarli direttamente in un ufficio, non chiedono questi i giovani italiani di oggi, eppure vorrebbero che l’ateneo fosse un ponte più proficuo e costruttivo tra l’esperienza accademica e l’esperienza professionale.

Oggi molti giovani sono anestetizzati al punto da non avere più nemmeno la forza di indignarsi di fronte ad un mondo ingiusto e violento, dove guerre, fame, schiavitù non fanno più notizia. Dove milioni di loro coetanei sono costretti ad accettare condizioni disumane alla ricerca di una nuova possibilità di vita. E c’è perfino chi si reinventa e vuole tornare al passato, a quella che fino a pochi anni fa era considerata un’esperienza degradante: il lavoro nei campi.

E tra gli under 35 che sono diventati imprenditori agricoli, sempre con quella benedetta laurea in tasca, ce ne sono fin troppi. Non è un caso che il settore agricolo sia uno dei pochi che registra una discreta crescita in Italia. Il lavoro nei campi non è più una mansione umile, ma un obiettivo da raggiungere in nome della green economy, di una vita di benessere in campagna e della decrescita felice.

Guardateli bene negli occhi, dunque, e ascoltateli per una volta, non attraverso i dati ISTAT, il rapporto Censis o nell’altrui mediazione letteraria e cinematografica. Oggi non basta più dire: impegnatevi, bisogna sacrificarsi per i propri obiettivi, si sa già.

Guardiamoli negli occhi e qualcuno abbassi lo sguardo per la vergogna. Siamo tutti coinvolti.

 

Foto: Emanuele/Flickr

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