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Panettone a Ferragosto

Già da qualche anno, alcune note ditte produttrici di dolciumi (e anche prestigiose pasticcerie) offrono il sorprendente “panettone di Ferragosto”. La via del business è, come sempre, lineare, per non dire cristallina: tanta domanda, tanta offerta. Ma vale anche l’inverso: l’offerta può stimolare la domanda, e la domanda è qui rappresentata dalla richiesta del dolce più amato dagli italiani, tanto amato da creare dipendenza. 

C’è chi ne tiene da parte delle scorte che, in base alla data di scadenza, potrebbero arrivare fino ad aprile. Perciò, visto che qui abbiamo a che fare con un prodotto che rappresenta il dolce di Natale per antonomasia nel mondo, l’industria dolciaria di tutta la penisola è indotta a partorire ricette estive e fantasiose rivisitazioni dell’antica ricetta.

Un successo che potrebbe lasciare indifferenti i non milanesi, ma che potrebbe interessare i laicisti. Perché qui stiamo parlando di un simbolo. Il simbolo culinario per eccellenza del Natale, qualcosa che deve restare “incastonato” in un preciso momento dell’anno, una celebrazione nella celebrazione. E invece no, basta fare un giro in qualche supermercato per rendersi conto che una vera “rivoluzione” socio-culturale passa attraverso il più divertente e trasversale dei vizi capitali: la gola. E no, non ci stiamo a mangiare il panettone solo a Natale, consumandone gli eventuali resti entro fine gennaio, o facendo le famose scorte che hanno la data di scadenza dell’aprile successivo. Noi lo vogliamo sempre, il panettone, possibilmente tutto l’anno.

Uno dei maggiori esponenti della pasticceria italiana (gli insider lo identificheranno facilmente) dichiarava che, nel suo laboratorio, il panettone veniva prodotto tutto l’anno, perché non si poteva relegare un dolce così buono a un periodo così circoscritto. Tutto questo proliferare di panettoni estivi, che lascia interdetti alcuni, ma che ne rende felici molti di più, è un inatteso grimaldello che apre le porte alla secolarizzazione, molto più di tanti proclami, manifestazioni e conferenze sul tema. L’industria, ovviamente, utilizza i simboli a proprio uso e consumo, in stretta correlazione con l’uso e il consumo di quelli che vengono chiamati, non a caso, “consumatori”, ma sa che determinati prodotti sono destinati, in modo rigido o quantomeno in prevalenza, a delle specifiche nicchie temporali. Così, in ambito gastronomico, colombe e uova di cioccolata sono ad esempio destinati al periodo pasquale, mentre zamponi e cotechini vengono acquistati in prossimità del Capodanno.

Nulla vieta, ovviamente, che si possa mangiare (per dire) un cotechino a settembre, ed è sempre possibile farsene confezionare uno dal salumiere. Tuttavia, sono portata a supporre che il novanta per cento dei cotechini venga prodotto e cucinato a ridosso del Capodanno, perché i consumi (come del resto altre cose) seguono non solo le stagioni, ma anche le tradizioni, le festività e le ricorrenze.

Intendiamoci, io non ho nulla contro le tradizioni, le tradizioni possono essere interessanti fenomeni folcloristici. Tuttavia, la tradizione non dovrebbe essere nemica del progresso. Se, tradizionalmente, il calcio è sempre stato uno sport di appannaggio rigorosamente maschile, questo non dovrebbe impedire (e in effetti non ha impedito) che una squadra femminile di calcio possa rappresentare lo sport italiano nel mondo, rendendoci non solo orgogliosi delle ragazze che hanno vinto, ma anche sdoganando legittime ambizioni femminili in ambito sportivo e aggiungendo un tassello importante alla costruzione della parità di genere.

A mio modo di vedere, il panettone di Ferragosto è, da una parte, il segnale dell’attenuazione di una rigidità culturale legata a una tradizione festiva di carattere in buona misura religioso. Una sorta di presa d’atto, potremmo dire. Al tempo stesso, l’apparizione “fuori tempo” di un dolce tipicamente natalizio rappresenta di fatto una spinta in direzione di un’interpretazione più elastica di quella che è una delle più tipiche ricorrenze venate di simbologia religiosa, e questo non può che lavorare in favore di una percezione più laica della vita sociale.

E sì, forse uno dei mezzi per arrivare alla secolarizzazione è anche questo: lo smantellamento (o, quanto meno, l’attenuazione) dei simboli, che non passa attraverso il diniego o, peggio, il divieto, ma attraverso la pluralità e la moltiplicazione dell’offerta. Tanto più se teniamo conto del fatto che siamo tutti golosi di vita, e anche di dolcezza.

Flaviana Rizzi

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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