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Pacifismo e realismo: tra violenza strutturale e culturale

I concetti di pace e di violenza, come vengono interpretati da Galtung, sono semplicemente privi di qualsiasi significato per il realismo politico. Infatti, nella riflessione di questo autore, il concetto di violenza viene dilatato semanticamente in modo tale da comprendere sotto di esso non solo la guerra bensì anche la distribuzione di potere e le risorse connesse a istituzioni e strutture che causano morti e sofferenze evitabili.

di Giuseppe Gagliano

Ebbene, questa forma di violenza viene definita violenza strutturale. Accanto ad essa esisterebbe anche la violenza culturale, termine sotto il quale sono compresi tutti quei fattori culturali, ideologici, linguistici che si prestano ad operazioni volte a mascherare o a fornire una patina di giustificazione alla violenza diretta e strutturale. Ebbene, alla luce di queste riflessioni, la pace è definita in senso stretto come assenza di violenza diretta, strutturale e culturale.

Ora, per un realista politico, la pace intesa in questo senso equivale alla condanna di tutta la politica estera posta in essere dall’inizio della civiltà ad oggi. Non a caso, i principali esponenti del pacifismo internazionale, rifiutano in modo radicale sia il principio di potenza che l’equilibrio del potere nonché l’atteggiamento di diffidenza nei confronti del proprio avversario, diffidenza che spesso si traduce in azioni volte a prevenire eventuali mosse dell’avversario.

Nella riflessione di Robert Nozick i diritti umani fondamentali vengono interpretati come assoluti nel senso che costituiscono inviolabili limiti etici ad ogni nostro comportamento, individuale o collettivo che sia. Infatti, ogni intervento che comporti la violazione dei diritti umani, viene sempre considerato moralmente inammissibile. Anche questa concezione, come quella di Galtung, si può considerare lontanissima da una concezione realistica sia della storia che della prassi politica.

Da un punto di vista strettamente storico, affermare che la vita umana sia sacra - come sostenuto dalla dottrina cristiana che ignora in modo ipocrita la sua storia lontanissima dal rispetto dei diritti umani - significa negare qualsiasi valore storico sia all’essere umano che alla società. Nell’ambito della realtà storica la vita umana è sempre stata un valore esclusivamente relativo e mai assoluto. La Dichiarazione dei diritti, ad esempio, è nata da un atto di potere e di violenza della borghesia francese ai danni dell’Ancien Régime non da un atto di amore verso Dio e l’umanità. Se, ad esempio, durante la guerra di liberazione in Italia la vita umana fosse stata considerata un valore assoluto, i partigiani - indipendentemente dal loro eterogeneo orientamento politico - non avrebbero dovuto uccidere né i fascisti né i nazisti. Allo stesso modo, l’FNL algerino - come l’IRA irlandese-non avrebbe dovuto opporsi con la violenza delle azioni terroristiche e della guerriglia alla presenza francese in Algeria. Insomma, una tale tesi è dal punto vista storico, semplicemente inaccettabile. In questo contesto assolutistico- e potremmo dire metastorico -si inseriscono anche la riflessione di altri autori.

Ad esempio, secondo Albert Schweitzer, sarebbe lecito parlare di un vero e proprio imperativo della venerazione per la vita muovendo dall’osservazione che io sono vita che vuole vivere circondato da vita che vuole vivere e quindi distruggere o menomare un essere dotato di volontà di vivere è sempre un atto di violenza.

Un’altra concezione parte dall’assunto che ogni essere umano ha una potenzialità è cioè capace di crescere, svilupparsi e realizzare se stesso. Ebbene ogni essere umano è in un certo senso un centro teleologico di vita e, in quanto tale, ha un valore assoluto: distruggerlo in modo deliberato significa compiere un atto di violenza contro di esso. Questa concezione è notoriamente quella della ecosofia di Arne Naess. Esiste poi una terza concezione che parte dall’assunto della esistenza di una unità di tutto ciò che vive, assunto questo esplicitato da Gandhi, secondo il quale tutte le creature viventi-animali compresi-partecipano di questa unità metafisica. Di conseguenza, ogni volta che l’uomo uccide o distrugge l’esistenza di un altro essere vivente, compie non solo un atto di violenza ma anche un atto di rottura nei confronti della unità del vivente (fra l’altro ,all’interno di questo contesto gandhiano, si inserisce la riflessione di Aldo Capitini).

L’aspirazione più profonda di questo pacifismo è in realtà la trasformazione radicale, dal punto di vista psicologico ed antropologico, dell’essere umano e quindi della società umana a partire dai propri assunti metafisici e morali. Ora, per un realista politico, che si ispiri semplicemente alle riflessioni di Machiavelli e Guicciardini (senza bisogno di richiamarsi alle raffinatezze sociologiche e politologiche di Raymond Aron) questi assunti non possono essere condivisi.

Analizzando poi alcune riflessioni di Giuliano Pontara non possiamo non sottolineare la presenza di evidenti paradossi logici. Secondo Pontara: “Quando gli uomini agiscono nell’ambito di strutture autoritarie, come invariabilmente sono quelle militari, essi possono assai facilmente essere portati a comportarsi in modi estremamente disumani nei confronti di coloro che vengono caratterizzati come i nemici.” (La personalità non violenta, pag.10). Ebbene, questa affermazione, legittima o meno, come non può essere definita una affermazione a propria volta manichea? A tale proposito proprio lo stesso Pontara condanna in modo esplicito i modi di pensare in bianco e nero che attuano una logica dicotomica costruita su affermazioni quali: noi siamo nel giusto e nel vero, loro nell’errore e nel falso; noi siamo i buoni, loro i cattivi. Ma, ci domandiamo, non è lo stesso Pontara vittima di quella stessa logica dicotomica che vorrebbe eliminare? In un altro passo dal saggio citato, a nostro modo di vedere, l’autore cade nello stesso paradosso logico. Per il filosofo italiano il capitalismo sarebbe totalitario:” perché è caratterizzato da politiche rapaci nei confronti della natura, dei gruppi più deboli e dei paesi del terzo mondo. Il sistema delle potenti e onnicomprensive società multinazionali stanno assumendo-Secondo l’autore-sempre di più il posto e le funzioni dello Stato totalitario perché queste ci sfruttano, si manipolano, ci indottrinano, si condizionano dal momento in cui nasciamo fino al momento in cui moriamo.”(pag.19). In altri termini, per il filosofo italiano, il capitalismo rappresenta un male quasi assoluto almeno tanto quanto il sistema politico di quei paesi che si fondavano sul socialismo reale.Porre sullo stesso piano i due sistemi non è dare una valutazione manichea?

Ebbene, le contraddizioni logiche dell’autore non si concludono con queste affermazioni. Secondo il filosofo italiano una delle caratteristiche dell’educazione alla pace sarebbe il fallibilismo in base al quale nessuno può mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento si crede essere vero, in effetti sia tale. Ora, non senza ironia, ci domandiamo: questo stesso principio non si può applicare al pacifismo?

Veniamo adesso ad un’altra considerazione formulata dallo stesso autore che certamente farebbe piacere a tutti coloro che hanno sempre voluto, fortemente voluto, un’Europa debole e quindi facilmente dominabile. Ma vediamo cosa afferma il filosofo italiano: “il lato negativo del processo di unificazione europea in corso consiste nel rischio che esso sfoci in un nuovo Stato nazionale più vasto e forte, in una nuova superpotenza economica e militare in cui i sistemi d’arma termonucleari francesi hanno contratto un matrimonio indissolubile con il capitale e la scienza militare tedesca”(pag 20). Nell’ottica realistica tutto ciò non costituirebbe un grave errore ma sarebbe semmai auspicabile per porre in essere un freno alle ambizioni di altri paesi che, giocando sulle divisioni interne dell’Europa, hanno fino a questo momento dettato le regole del gioco.

Un’altra considerazione, a nostro giudizio estremamente significativa formulata dall’autore, è quella relativa alla necessità non solo di una morale planetaria ma addirittura di un sistema giuridico valido a livello globale. Questa tesi, ancora una volta, ignora la natura intrinsecamente storica sia del diritto che della morale e ignora quindi la dimensione squisitamente relativa dei nostri sistemi morali come dei nostri sistemi politici ma soprattutto ignora le implicazioni totalitarie alle quali inevitabilmente una tale concezione porterebbe.Tuttavia il filosofo italiano Pontara è costretto a riconoscere i limiti e i paradossi di un pacifismo assoluto che prescinde sempre e comunque dalle conseguenze. Infatti afferma, questa volta realisticamente, che:” l’uso della violenza non può essere sempre condannato a priori e non può sempre essere ingiustificabile”.(pag.46). Se questa affermazione è vera, allora come logica conseguenza, ne segue che la vita umana non è sacra perché la vita umana si inserisce all’interno di un contesto storico temporalmente definito. Per un realista tanto la guerra quando la pace non sono valori assoluti-come ricordava Bobbio-o intrinseci ma relativi o estrinseci. E in secondo luogo, sottolineava sempre Bobbio, non è possibile stabilire oggettivamente quando la guerra sia giusta o quando una pace sia giusta e ciò per la mancanza di un giudice imparziale che sia cioè al di sopra delle parti nell’ordine internazionale. Infatti, ogni raggruppamento politico ,tende a considerare giusta la guerra che egli fa e ingiusta la pace che subisce sosteneva Bobbio nel fortunato saggio Il problema della guerra e le vie della pace (il Mulino ,1984). Sempre in questo saggio Bobbio sottolineava come non solo come la guerra e la violenza sono sempre esistite ma come la storia sia in gran parte un prodotto della violenza. Inoltre, molte delle conquiste civili che noi consideriamo benefiche per il progresso umano, sono state partorite attraverso la violenza. A tale proposito Bobbio porta alcuni esempi significativi: “gli umanisti si consideravano eredi di una grande civiltà, la civiltà di Roma, che era stata fondata su una serie di guerre atroci. I nostri padri liberali si consideravano eredi della riforma, cioè di un periodo di lotte religiose che avevano insanguinato il mondo per decenni. Noi ci consideriamo figli della rivoluzione francese che per la prima volta ha instaurato un regime di terrore e della rivoluzione sovietica che è finita nelle stragi di Stalin.(…). La nostra storia repubblicana non è venuta dopo uno dei momenti più tragici della nostra storia, e sarebbe venuta se non fosse stata preceduta da quella storia di lacrime e sangue? La violenz a(..) è talmente compenetrata nella storia che è impossibile prescinderne”. Per quanto atroce possa sembrare, considerare la violenza come uno scandalo della storia costituisce un grossolano errore storico.

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