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Omicidi, con contorno di vittime...

Secondo la ricerca Barbagli-Minello, conservata negli archivi del Ministero degli Interni, negli ultimi 25 anni circa, nel nostro paese il numero degli omicidi è calato.

Il dato più eclatante, è quello che palesa una notevole riduzione del numero di omicidi a Catania, città siciliana che – per molti anni – ha detenuto l’orrendo primato di città col più alto numero di casi di omicidio.

Attenzione però: grazie a questa ricerca, sappiamo anche quale tipologia di omicidi è in calo, ed è rappresentata da quelli che accadono tra cosche malavitose e criminalità comune. Per ciò che riguarda invece gli omicidi tra cittadini, scaturiti da futili motivi – ad esempio una lite – o i femminicidi, non ci sono buone notizie e lo sappiamo tutti.

Ritengo però importante sollevare una criticità che si lega a doppio filo con i dati sopra riportati e con gli omicidi che vedono protagonisti persone comuni, giovani donne, adulti non compromessi nelle maglie della malavita.

Quando apprendiamo che una persona è morta ammazzata, scatta immediatamente il carrozzone mediatico e, a seconda del periodo, l’assalto – da parte del parterre politico – alla notizia, a soli scopi propagandistici

E la vittima di turno? Oltre ad aver trovato la morte, prematuramente, passa in men che non si dica nel dimenticatoio.

Un esempio per tutti: il recente caso della giovane Pamela Mastropietro, uccisa e orrendamente fatta a pezzi e mutilata, il cui corpo è stato trovato all’interno di due trolley. Dopo poche ore dal macabro ritrovamento, ecco l’arresto di quello che appariva essere l’omicida: un nigeriano che vive a Macerata e con regolare permesso di soggiorno.

Alcune cose mi sono apparse poco chiare, su questo arresto. Erano passate poche ore dal ritrovamento, le forze dell’ordine scovano immediatamente l’orco nero e lo arrestano. Trovano il sui appartamento lindo e pinto, tanto che la scientifica ha dovuto utilizzare il Luminol per scorgere tracce di sangue. Però, trovano gli abiti della poveretta, sporchi di sangue, e coltelli e coltellacci, sempre sporchi di sangue. Non sembrava coerente. Ha avuto il tempo di pulire casa alla perfezione, poi lascia i coltelli sporchi, e non si libera degli abiti della vittima.

Sta di fatto, che da assassino il nigeriano ora è sotto accusa non per aver ucciso ma per aver, semmai, smembrato il povero corpo.

Al di là di questo, per l’ennesima volta, di tutto si parla tranne che della vittima. Chi era Pamela? Perché si drogava? Perché la famiglia aveva scelto una comunità di recupero così lontana da casa? Cosa pensava, desiderava, faceva Pamela? Niente. Le cronache nazionali non ne parlano, i tg nemmeno. Tutti molto presi a far da criminologi, e le forze politiche ora a condannare l’omicidio ora a sostenere il tentativo di strage, postumo alla morte di Pamela, ad opera di un 28enne in odore di ritorno al nazifascismo, e convinto di avere la “missione” di liberare la patria dagli invasori neri…

Accade sempre così: si dovrebbe parlare molto delle vittime, invece si parla del corollario e si fanno ipotesi psisco sociali relative all’evento omicidiario. E’ accaduto per tutte le vittime uccise barbaramente. Ricordate tutti Sarah Scazzi. Cosa ne sappiamo di quella bambina? Nulla. Però sappiamo vita, morte, miracoli, lacrime e sceneggiate della cugina – Sabrina Misseri – che alberga, con la madre, nelle patrie galere, condannate entrambe per l’omicidio della ragazzina.

Non è un bel comportarsi questo. E’ un comportarsi al contrario. Come se le vittime divenissero il contorno dell’omicidio, e non i protagonisti. Palesa una cosa aberrante: la sete di sangue, che – a seconda della convenienza e dell’opportunità del momento – regala a certa gente un motivo per fare audience.

Io invece, da giornalista normale, sono più interessata alle vittime che ai profili psicologici di chi si arroga il diritto di togliere la vita. Padreterni da marciapiede, che dovrebbero solo finire i loro giorni nelle patrie galere. E non sono minimamente interessata alla convenienza politica, che sfrutta pure certi casi di cronaca.

Nella società in cui viviamo, troppa gente si è abituata alle atrocità, tanto da non porsi troppe domande su tutto ciò che l’essere umano è, conta, vale.

E in tal modo, non si rende più alcun tipo di rispetto alle vittime e alle loro famiglie, ma si rende onore al sistema politico e mediatico che è capace solo di calcolare una cosa: lo share.

Numeri. Audience. Share. È tutto un teatro. Reso osceno, in questo caso, dalla dimenticanza totale di sofferenze atroci, mancanze affettive e addii prematuri. Cerchiamo di non trasformarci in automi, ammesso che già non sia accaduto. L’abitudine alla morte violenta non può che generare effetti deleteri, sul valore dell’esistenza umana e sul livello di violenza che sta degenerando di giorno in giorno.

Da questo, a ritrovarsi immersi in un mare di sangue senza rendersene conto, il passo è breve…

Questo articolo è stato pubblicato qui

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