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Oltre l’Occidente: la Turchia tra Islam e turanismo

Dopo aver portato avanti il dossier sul tema dell’Occidente, l’Osservatorio inaugura oggi con Emanuel Pietrobon una serie di studi che saranno dedicati alle culture politiche che si prefiggono l’obiettivo di andare oltre l’influenza occidentale, iniziando dall’ideologia oggi predominante in Turchia e fondata sulla riscoperta delle radici identitarie e religiose profonde del Paese. Un radicale mutamento rispetto al laicismo di Ataturk che ha il suo interprete principale nel presidente Erdogan.

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L’Anatolia è un punto di incontro e scontro fra ciò che si trova in Europa e ciò che si trova in Asia sin dall’alba dei tempi. Questa penisola ha ospitato alcune delle guerre più celebri dell’antichità, come quella di Troia e quelle fra le città-stato dell’Antica Grecia e l’impero persiano, e la sua rilevanza geostrategica è aumentata con il passare dei secoli.

L’Anatolia è quel luogo in cui chiunque prende residenza acquisisce automaticamente una chiave universale dal valore inestimabile che rende possibile l’accesso simultaneo al Vecchio Continente, se si arriva dall’Asia, o al Caucaso, al Turkestan, alla Mesopotamia, se si arriva dall’Europa.

Ed è chiaro che avere l’accesso al Caucaso, al Turkestan e alla Mesopotamia non significa introdursi in un percorso senza uscita ma, al contrario, equivale a percorrere una strada dagli sbocchi molteplici. Infatti, una volta messo piede nel Caucaso il passo successivo potrebbe essere l’entrata nel mondo russo, mentre l’arrivo in Mesopotamia è propedeutico al passaggio nella penisola arabica, che è funzionale allo sbarco in Africa, e nel mondo iraniano, che rappresenta una fermata obbligata per l’indosfera.

Infine vi è il Turkestan, che proprio come l’Anatolia è un luogo in cui è custodita una chiave universale dalle quattro direttrici: a Nord giace il mondo russo, a Sud si trovano il mondo iraniano e l’indosfera, ad Ovest si accede al Caucaso e al Medio Oriente, e ad Est si entra nella millenaria sinosfera.

È soltanto partendo da questa breve premessa su cosa significa l’Anatolia oggi, e su cosa ha sempre significato, che si può comprendere perché l’Occidente ha fallito con la Turchia. Acerrima rivale delle potenze europee dapprima della celebre caduta di Costantinopoli, la Turchia moderna è la legittima e degna erede di un impero, quello ottomano, estremamente longevo, durato dal 1299 al 1922.

La sua entrata nella sfera d’influenza occidentale è stata violenta, traumatica, rapida, coercitiva e, soprattutto, anti-storica. L’identità turca si è forgiata nei secoli attraverso gli scontri con le potenze europee della Res publica christiana, i sultani sul trono di Istanbul sono stati al tempo stesso delle guide per gli ottomani e per la comunità islamica mondiale (umma), e l’interesse per l’Occidente, inteso come un’entità meritevole di studio ed una fonte di conoscenze dalla quale attingere, è cominciato soltanto con l’entrata dell’impero in una fase di decadenza.

Ma la Sublime Porta non era interessata ad occidentalizzarsi in senso culturale, dalle potenze europee voleva apprendere le migliori tecniche di combattimento, l’arte della costruzione di un’industria della difesa. Questo processo di modernizzazione tecnologica, noto come Tanzimat, ebbe luogo nel 19esimo secolo, e contribuì ad avvicinare due mondi che per secoli erano stati in contrapposizione – ma soltanto dal punto di vista geopolitico. La Turchia diventò improvvisamente utile agli occhi delle potenze europee in qualità del suo ruolo di contenimento dell’espansionismo russo nei Balcani, nel Mar Nero, nel Caucaso e nell’Asia centrale. Come ieri, la Turchia viene utilizzata dall’Occidente per lo stesso motivo: lo spettro russo e il posizionamento geostrategico dell’Anatolia, queste le ragioni alla base dell’adesione di Ankara all’Alleanza Atlantica.

Il punto è che non può esistere alcun tipo di alleanza solida e durevole se mancano i presupposti per un dialogo interculturale costruttivo – e nel caso turco mancano tutti. Si potranno occidentalizzare i loro costumi e le loro menti, ed anche convincere i loro politici a partecipare ad alcune guerre, ma soltanto per un po’.

È stato il carisma di Mustafa Kemal Ataturk a trasportare la Turchia in Occidente, ma è stato un sogno condiviso soltanto da lui e dagli altri capi di Stato europei dell’epoca. Quell’epopea è durata il tempo di Ataturk perché poi, dal 1960 ad oggi, le forze armate, messe a guardia di una costituzione anti-storica ed innaturale, poiché repubblicana, laica ed occidentale, sono dovute intervenire, o hanno minacciato un intervento, dieci volte per proteggere quei valori importati e trapiantati con la forza. Alla fine, la forza bruta non è bastata: Recep Tayyip Erdogan, il padre della nuova Turchia, ha prevalso sull’ordine kemalista, il cui ultimo e debole colpo di coda si è manifestato nel luglio 2016.

Se l’Occidente fosse realmente quel blocco coeso ed unitario che viene dipinto, le carte fondamentali dei suoi membri non verrebbero protette con la forza e, soprattutto, non si assisterebbe a delle simili altalene. L’ascesa inarrestabile di Erdogan è la prova che la Turchia non è Occidente ed il suo mantenimento all’interno di esso, coatto ed obbligato da ragioni geopolitiche, non è stato possibile.

A questo punto occorre chiedersi: qual è il percorso che ha creato le condizioni per l’ascesa di Erdogan? La verità è che il progetto di occidentalizzazione di Ataturk è stato debole sin dai primordi e la sua politica ultra-laicista a base di chiusura delle moschee e di restrizione dell’islam alla sfera privata ha attratto numerose antipatie anche mentre era in vita.

Quelle antipatie, che sarebbe più corretto definire dei contraccolpi provenienti dalla Turchia profonda, si sono manifestate con vigore sempre maggiore nel dopo-Ataturk e hanno assunto diverse forme: colpi di stato, ascesa di politici anti-kemalisti, frequenti tensioni interetniche con la minoranza greca. Queste le cause del frequente interventismo delle forze armate, custodi della rivoluzione kemalista, negli affari pubblici dal dopo-Ataturk al luglio 2016.

Spesso si cita l’inizio dell’era Erdogan con la fine prematura del governo di Necmettin Erbakan, il padrino del nazionalismo islamico neo-ottomano e panturco, un politico del quale Erdogan è stato seguace, sotto la cui ala si è fermato in gioventù, e che dai militari fu costretto a rassegnare le dimissioni nel giugno 1997, ad un anno esatto dal suo insediamento. Erbakan era ritenuto troppo pericoloso: dichiarazioni pesanti contro la civiltà occidentale, disprezzo per Israele causato da una combinazione di antisemitismo teologico ed antisionismo politico, propositi di smantellare l’impianto kemalista, sogno di un ritorno del califfato e di un’alleanza musulmana internazionale.

Erdogan ha imparato dagli errori del suo mentore, che gli costarono la carriera e l’opportunità storica di riportare la Turchia alle sue vere origini, per questo ha svelato la natura del proprio disegno ideologico per tappe, ovvero di pari passo con l’indebolimento del fronte kemalista: eroso dal basso dalla re-islamizzazione delle masse e attaccato dall’alto dalle purghe.

La riconversione in moschea di Santa Sofia ha rappresentato il punto naturale d’arrivo di un percorso iniziato nel 1935, il giorno successivo alla sua museizzazione da parte di Ataturk – gesto fatto esclusivamente per accontentare gli alleati occidentali e che sconvolse l’opinione pubblica, gettando nello sconforto e nell’imbarazzo lo stesso mondo politico. E sbaglia chi crede che Erdogan abbia giocato la carta di Santa Sofia per ragioni politiche, ovvero per aumentare i consensi presso l’elettorato in un periodo di difficoltà economiche: non ha potuto parlarne negli anni precedenti perché memore di quanto accaduto ad Erbakan e consapevole del potere a disposizione del fronte kemalista.

E sbaglia per innocente ignoranza, o mente sapendo di mentire, chi sostiene che ad Erdogan non sia mai interessato del destino della ex cattedrale perché non ne avrebbe mai parlato prima degli anni 2010. Erdogan fece riferimento al fato del luogo di culto in un’intervista di cui i più ignorano l’esistenza risalente al lontanissimo 1994, quando era sindaco di Istanbul: “Ayasofya tornerà ad essere una moschea”. Queste furono le sue parole, che possono essere interpretare come la semplice speranza di un fedele oppure come l’avviso lanciato alla posteriorità di un politico estremamente capace e lungimirante che avrebbe lavorato intensamente per ventisei anni per portare a compimento il suo progetto.

Erdogan è la manifestazione più palese dei sentimenti che brulicano e animano la Turchia profonda, che sono il neo-ottomanesimo, il nazionalismo islamico, il panturchismo e il turanismo, e se è vero che il percorso di rinascita imperiale neo-ottomana è iniziato con Erbakan, lo è altrettanto che il cammino verso la de-occidentalizzazione inizia molto prima, negli anni 50′, all’indomani dell’adesione all’Alleanza Atlantica.

Era l’epoca dell’inizio della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi di potere perfettamente contrapposti: l’Occidente capitalista ed americano-centrico, e l’Oriente comunista e sovietico-centrico. La Turchia, sulla cui entrata nell’orbita occidentale erano state investite numerose risorse, era in subbuglio – e non per via di qualche insurrezione comunista eterodiretta da Mosca. No, il subbuglio era causato dallo scoppio di una primavera identitaria, panturca ed antioccidentale, che aveva permesso al nazionalista Adnan Menderes di vincere le elezioni parlamentari del 1946, nel 1954 e nel 1957.

Uomo carismatico e pensatore incompreso di un certo peso, Menderes fu fra i progenitori del ritorno in scena del panturchismo e del turanismo e, proprio come Erdogan oggi, non nascose mai una certa ostilità nei confronti di Ataturk – per via della sua islamofobia – e in un’occasione, in luogo di riproporre la riconversione in moschea di Santa Sofia, arrivò addirittura a ventilare l’ipotesi della ricostituzione del califfato.

Menderes non categorizzò mai se stesso come un nostalgico dell’era ottomana, ma si premurò di far riaprire migliaia di moschee chiuse da Ataturk, di fermare l’occidentalizzazione dei costumi e della sfera pubblica, e di costruire relazioni di buon vicinato nel mondo musulmano, dando impulso alla ricerca accademica sul panturchismo e sul turanismo – che sono fra le correnti di pensiero che influenzano le attuali direttrici dell’agenda estera turca.

Per via dei suoi progetti geopolitici e del suo presunto ruolo direttivo dietro il pogrom antigreco di Istanbul del 1955 – 30 morti, centinaia di feriti, decine di stupri, migliaia di attività commerciali distrutte – fu deposto dalle forze armate nel 1960 e giustiziato l’anno successivo.

La morte di Menderes determinò il ritorno alla moderatezza del nazionalismo panturco per un breve periodo, ma quando accaduto dal 1960 ad oggi è sui libri di storia, o lo sarà presto: la Turchia è tornata alle sue vere origini, che non sono occidentali, e le masse hanno estromesso una forza estranea (il kemalismo) dal potere. Le vittorie di Erdogan suonano come uno schiaffo ad Ataturk e all’Occidente e come una rivincita di Erbakan e Menderes, due uomini che né lo stato profondo turco né l’Occidente seppero comprendere pienamente, ignorando l’importanza di un elemento comune: erano stati votati in massa dall’elettorato, che di loro era entusiasta.

Oggi, sono maggiori le rivalità che la Turchia ha in piedi con i suoi presunti alleati occidentali che non quelle in giro del mondo. Erdogan è, molto semplicemente, l’espressione di una rivoluzione che il popolo, ovvero la Turchia profonda, ricercava da sessant’anni e che ha infine ottenuto. La Turchia non era e non è Occidente, ma era ed è la Sublime Porta fra l’Europa e l’Asia, il cuore pulsante del panturchismo e del nazionalismo islamico e, soprattutto, il rivale per eccellenza del Vecchio Continente.

Foto: Needpix

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