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A Hong Kong la finanza si schiera contro la democrazia

L’ossessione per il feticcio della democrazia come bene esportabile, di cui è stata a lungo preda la politica statunitense, non sembra essere condivisa dalle maggiori compagnie finanziarie nordamericane, quantomeno nelle loro diramazioni asiatiche. Anzi, per Kpmg, Deloitte, Pricewaterhouse-Coopers e Ernst&Young, le big four della revisione contabile e della consulenza che insieme fatturano 17 miliardi di dollari l’anno, la democrazia è un problema, una variabile incontrollabile che potrebbe compromettere il sereno fluire degli affari e del denaro.

A fine giugno, le affiliate di Hong Kong delle quattro compagnie sono entrate a gamba tesa nel dibattito politico in corso da mesi nella regione ad amministrazione speciale, tornata alla Cina nel 1997 dopo un secolo e mezzo di dominazione britannica. Lo hanno fatto comprando una pagina pubblicitaria sui tre maggiori quotidiani in lingua cinese dell’isola per esprimere la propria opposizione alle iniziative del movimento Occupy Central, che si batte per l’introduzione di regole realmente democratiche in vista delle elezioni a suffragio universale previste per il 2017, dopo dieci anni di rinvii imposti dalle autorità di Pechino.

Il governatore di Hong Kong viene attualmente nominato da 1200 lobbisti selezionati direttamente da Pechino. In vista delle elezioni del 2017, la Cina vorrebbe continuare a esercitare un diritto speciale sulle consultazioni, calando dall’alto i nomi dei candidati sui quali i cittadini dell’isola sarebbero poi chiamati a esprimere la loro preferenza: un modello di democrazia mutilata e controllabile in linea con la filosofia politica del capitalismo di stato; ma non in linea con i desideri dei cittadini di Hong Kong, da sempre molto distanti da Pechino e dalla sua nomenclatura se è vero, come certificato da un recente sondaggio on-line subito rimosso, che il 90% della popolazione preferirebbe tornare sotto la tutela della Regina Elisabetta piuttosto che subire l’abbraccio definitivo dalla antica madre Cina.

Il movimento Occupy Central, chiaramente ispirato dalle proteste di Wall Street e formato principalmente da studenti e intellettuali della ex-colonia britannica, ha incubato il diffuso malcontento suscitato dalle ingerenze della Capitale ed ha promosso un referendum senza valore legale per chiedere ai cittadini di indicare un modello elettorale tra quelli proposti, tutti centrati sul principio di scelta dal basso dei candidati. Il risultato della consultazione è stato eclatante soprattutto in ragione dell’altissima partecipazione, con oltre 750.000 voti espressi in pochi giorni. Le proposte emerse dal referendum sono state comunicate al Governo autonomo di Hong Kong, che dovrebbe esprimersi a breve sulla scelta del meccanismo elettorale per il 2017. Se la decisione finale non dovesse tenere conto dell’indicazione del referendum e non rispettare gli standard democratici internazionali, il movimento è pronto a portare migliaia di persone in piazza e mettersi alla guida della protesta.

Senza aspettare l’esito del pronunciamento, le Big Four hanno deciso di scendere compattamente in campo per esprimere la propria “preoccupazione” di fronte alla prospettiva che Hong Kong diventi teatro di una diffusa manifestazione di dissenso. E hanno fatto la loro scelta: la democrazia fa male agli affari, meglio il comunismo cinese e il suo capitalismo pacificato. Le società di consulenza hanno fatto ricorso alla propaganda alla paura, rivolgendosi direttamente agli abitanti di Hong Kong dalle pagine dei maggiori quotidiani locali per evocare scenari di disordine sociale e rovina economica:

“Se le proteste di Occupay Central si verificheranno, le banche, la borsa e le attività commerciali saranno inevitabilmente colpite. Siamo preoccupati che gli investitori e le multinazionali possano decidere di ricollocare i loro quartier generali, abbandonando Hong Kong e ritirando i loro affari”. Le proteste, si legge ancora nell’appello, potrebbero mettere in pericolo la leadership finanziaria globale della regione, minacciando la legalità e provocando danni inestimabili all’economia.

Le big four non sono sole in questa battaglia. Come se non bastasse il sostegno del governo cinese, infastidito dal successo del referendum, la cordata anti-dissenso vede la partecipazione delle camere di commercio di India, Canada e (ohibò) Italia, unite nella condanna delle possibili manifestazioni.

Il movimento democratico ha provato a rispondere all’appello acquistando, a sua volta, una pagina sull’Hong Kong Economic Times, uno dei tre giornali che aveva pubblicato il grido si allarme degli alfieri della finanza globale. Il comunicato di Occupy Central, benché fosse già stato pagato, non è mai arrivato nelle edicole. I rappresentanti del movimento sono stati informati solo all’ultimo minuto che il loro messaggio non aveva ottenuto il consenso alla pubblicazione. La spiegazione del diniego è stata fornita dal giornale stesso: “Il testo pubblicitario invitava le persone a prendere parte alle proteste di Occupy Central. Poiché il governo ha chiarito il fatto che Occupy Central è illegale abbiamo deciso di non pubblicarlo”.

Ma il movimento, risponde uno degli attivisti interpellati dal Wall Street Journal, non è illegale ed il referendum stesso, pur non avendo valore legale, non viola nessuna legge.

La lotta dunque rimane aperta ed animerà la scena politica dell’ex-colonia per i prossimi mesi. In gioco non c’è solamente la democrazia di Hong Kong, ma il concetto stesso di libertà e di rappresentanza in una parte del mondo destinata ad assumere sempre maggiore importanza. Le multinazionali della finanza sembrano già aver fatto la loro scelta di campo, benché le sedi centrali delle società coinvolte abbiano preferito non commentare l’accaduto o abbiano tentato di riversare la colpa sugli uffici di Hong Kong. Forse, in qualche luogo remoto, anche la finanza conserva un po’ di vergogna.

 

Photo: Jesse Clockwork, Flickr

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