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"Non credo nelle bombe intelligenti"

Quella notte era piuttosto tiepida, una notte di dolce goduta primavera dopo un rigido inverno. Afferrai la sciarpa, mi chiusi nel giubbotto di pelle e proseguii. Anche se lontana dalle mie abitudini, non volevo rinunciare alla messa di mezzanotte. In fin dei conti era sabato santo, quello che quando eravamo bambine si passava tra candele, incenso e preghiere in attesa del Cristo Risorto. Allora mi annoiavo, mi sedevo sull'inginocchiatoio e inventavo storie d'ogni tipo con la mia bambola, codine ai lati e abitino a fiori.

Avrei atteso con pazienza l'eccitante momento di spaccare con il mio pugno di bambina le uova di cioccolata e afferrare avida la mia sorpresa, gradita o meno che fosse restava la mia. Mentre passeggiavo suonarono nella mente quei ricordi, e sorrisi nostalgica per un passato non troppo lontano eppure già sfuggito. Cercavo una chiesa, non la trovai. Mi sentii povera, defraudata in terra straniera. L'indomani mi recai all'abbazia di Westminster, "luogo di culto cristiano" come lo stesso sito palesa. Lessi lì fuori che avrei dovuto pagare sedici sterline per entrare e visitarla. Ma a me non interessava affatto osannare la grandezza della chiesa, la sua miserabile potenza costruita di mattoni e sangue e suppliche: io volevo pregare. Volevo sedermi su una di quelle panche, dove bambina giocavo, e raccogliermi con me stessa in cerca di Cristo. Non mi fu permesso. E capii quanto terribile fosse essere privati della propria necessità spirituale di recitare una preghiera. Baccagliai ancora, rivendicai il mio diritto, nessuno mi ascoltò. Me ne andai.

In una domenica di sole, mi ritrovai nuovamente di fronte quei cancelli in ferro battuto alti e minacciosi. Osservai il serpentone di visitatori, così impazienti nei loro impermeabili, ben attrezzati con Nikon al collo e scarpe da ginnastica ai piedi. Mi voltai verso il prato antistante l'abbazia. Alcune donne serene nei loro lunghi abiti neri erano sedute sul verde come nel noto quadro di Manet. Pochi istanti dopo, due di loro erano inginocchiate sui loro tappeti e pregavano Allah in direzione della Mecca. Nessuna abbazia serviva loro se non il proprio corpo come tempio di spiritualità.

Io non credo nelle bombe intelligenti. Per definizione, mi pare che siano due parole inconciliabili. Non credo che un ordigno bellico possa essere “intelligente”, o almeno non nel modo in cui intendo il significato della parola “intelligenza”, che riconosco a menti illuminate come Margherita Hack, Orhan Pamuk, Maurizio Pollini. Non sarebbe intelligente, a mio avviso, neppure se scegliesse tra buoni e cattivi, tra palestinesi e israeliani, tra cristiani e musulmani, tra civili e non civili, tra una dualità che da sempre scuote il mondo in battaglie ben più complesse. In fondo, siamo tutti uguali, abbiamo la stessa destinazione e se talvolta potrà sembrare le strade percorse siano diverse, in realtà sono parallele. Quando i dadi del destino raccontano le giuste cifre, infine si incastrano come i fili di una perfetta ragnatela.

Non credo neppure che la democrazia possa essere esportata come le patatine o la ricetta della Coca Cola. Credo sia più che altro usata per distruggere culture, annientare paesi, rubare loro quanto c’è da accaparrare, stando ben attenti a suddividere la torta in spicchi uguali, o quasi. Non credo neppure nelle ideologie, nei partiti, nei comunisti, nei liberali, nei democratici, nei fascisti, nelle definizioni nuove di movimenti vecchi che non spingono verso il cambiamento. Credo che sia il modo rapido e sgarbato di molti di arricchirsi attraverso concetti fondamentali – tolleranza, uguaglianza, giustizia, esercizio mentale e manuale che identifica i talenti – che non appartengono a un’oligarchia, a una parte, a un "credo politico", come si usa dire (ammesso che alla politica si possa credere), ma all'intera umanità, senza distinzione di razza e nazionalità. Credo in chiunque sfugga alle definizioni e ai generi, rompendo gabbie mentali e sentimenti rabbiosi che alimentano razzismo e persecuzione.

Credo che ognuno sia libero di lottare per i propri diritti e per affermare se stesso in ogni sua declinazione. Credo anche non ci sia sempre un nuovo Vietnam, un popolo da civilizzare, una cultura da insegnare. Le culture si materializzano nelle tradizioni, nei dialetti, nei gesti, nelle preghiere. È quella strana abitudine che non ti fa sentire perduto neppure in terra straniera. Credo che ci sia bisogno di progresso, di costruire una zona franca in cui discutere torni a essere un camminare l'uno verso l'altro e non scontro violento, poiché molte volte le ragioni dell'uno sono specchio di quelle dell'altro. Ecco perché ho fiducia nei giovani come me, perché so che noi possiamo costruire muri che siano di case, ospedali, scuole, mense, università. Luoghi di vita, di incontro, di preghiera, di espressione, di emancipazione, di culture.

Questo mondo vecchio e stanco è il giardino abbandonato e mal tenuto dalle generazioni che ci hanno preceduto. Tuttavia c'è ancora spazio per erigere frutteti e vigneti piantando un seme di speranza e cambiamento in ciascuno di noi. Offriamo aiuto e non ci sarà negato. Torniamo a godere dei sentimenti come il dono più prezioso che ci sia stato fatto. Tutto ciò che occorre sta nelle nostre gambe e nei nostri sguardi, poco importa quale marca vestiamo o scarpe calziamo: saremo ugualmente noi con gli stessi sorrisi e i dubbi di sempre. Credo che la crisi serva proprio a questo: a ricordarci quanto distanti navighiamo dall'umiltà di riconoscere la ricchezza e la povertà di ciò che siamo. 

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