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Nepal: cannabis per uscire dalla crisi

Piantagioni di cannabis per sopravvivere in un paese neoglobalizzato e in cui l’economia si sfaglia e il lavoro scompare.

Nepal: cannabis per uscire dalla crisi

Un ministro (Minister for Local Development, Mr. Purna Kumar Sherma) scende nel Terai Nepalese per ispezionare le strade e si trova immerso in coltivazioni profumate di canabbis. Non è la stagione di massima fioritura (settembre-ottobre) ma l’impatto è notevole. Siamo vicini nel distretto di Udyapur: fra distese di sesamo, risaie, bufali giganti che trainano aratri e carretti. Nei campi marginali, che non sono pochi, alte, verdi, rigogliose piante di cannabis. Almeno 20.000 persone integrano i loro guadagni (e di fatto sopravvivono) con queste coltivazioni poi esportate (di contrabbando) a Jayanagar in India, passando per le incontrollate Kamala Hills.

Un chilo d’erba è venduto per Nrs 1500 in Nepal (euro 15), dieci volte meno rispetto a quanto s’ottiene vendendolo in India. L’erba del Terai è considerata fra le più pregiate. Un khatta di terreno (circa 70 metriquadri) può rendere fino a euro 1000 all’anno, che da queste parti è un patrimonio e non comparabile con altre coltivazioni. La polizia locale chiude gli occhi e riempie le tasche anche se, ogni tanto, distrugge qualche campo per giustificare la propria esistenza. C’è da dire che ai tempi d’oro dell’oppio fu lo stesso impero inglese (quando governava in India ed esportava oppio in Cina) a piantare in queste regioni delle coltivazioni che poi, un po’ ridotte e più nascoste, hanno resistito fino ai tempi d’oro dell’eroina. Per rimanere nel settore, la cannabis cresce naturalmente in gran parte del Nepal e nelle regioni nord-occidentali del Dolpo viene lavorata la resina per produrre quintalate di hashish, anche questo esportato da sempre.

Come scritto in altri posts, i paesi neo-globalizzati fanno fatica e la gente s’arrangia. In Nepal l’inflazione, il costo del denaro (tasso interbancario dal 9% al 17% in quattro mesi, di fatto un cash crunch), i costi dei terreni e delle case (aumentati del 100% nell’ultimo biennio), la crisi della poca industria grande e piccola, ha aumentato la povertà. Del resto non contrastata, come più volte ammesso dallo stesso governo, dalle politiche pubbliche e dei donatori internazionali. La percentuale di produzione industriale sul totale del PIL è scesa dall’11 al 6,8%, ciò significa che non vi è speranza di trovare un lavoro neanche nel prossimo futuro per questo oltre 400 persone al giorno (in massima parte giovani) migrano dal Nepal. Ma tanti contadini di queste parti non sanno neanche dov’è Calcutta per cui non è facile andarsene.

Un amico raccontava la storia di un migrante delle colline che doveva andare a Bombay per lavoro: gli hanno fatto pagare il doppio del prezzo di biglietto ferroviario, l’hanno trattato alla frontiera come un criminale, non aveva mai visto un treno, non ha mangiato per 48 ore perché aveva paura che qualcuno lo avvelenasse (addormentasse) per rubargli i soldi. Fortunatamente a Bombay qualcuno è venuto a prenderlo alla stazione se non sarebbe ancora là.

I pochi osservatori non frullati dalle beghe politiche segnalano che il dato della diminuzione della produzione industriale è grave, sia a livello di sistema (il Nepal non pone le basi per creare ricchezza) sia per le persone visto che l’occupazione in questo settore (già striminzito) è passata da 213.000 nel 1992 a 169.000 nel 2008. Solo nel tessile il numero di occupati s’è dimezzato negli ultimi 10 anni. Una corsa indietro rispetto a qualsiasi percorso di sviluppo. E’ anche inimmaginabile, però, prevedere un percorso di crescita se due banche a ciò dedicate e finanziate da donatori occidentali quali la Public Dev. Bank e la Infrastructure Dev. Bank, hanno visto i vertici azzerati, per truffoni dei dirigenti, da parte della Banca Centrale (Nepal Rastra Bank). Niente di nuovo visto ciò che succede ai vertici delle banche occidentali (perdite pagate dai contribuenti e premi ai managers responsabili) o anche nel top management italiano (distribuire dividendi con il bilancio in perdita e farsela ripagare da cassa integrazione e incentivi statali).

Non sorprende, dunque, che qua sotto nel Terai la gente s’arrangia per vivere. C’è un flusso continuo di poverelli che ogni giorno traversano la frontiera per offrire lavoro, qualche merce (a volte hashish ma come biasimarli), comprare povere cianfrusaglie in India e poi rivenderle. Al confine (aperto) sono trattati come pezzenti o criminali. In questi giorni poi ancora peggio perché i poliziotti indiani vogliono vendicarsi delle bandiere indiane bruciate dai maoisti nelle città di confine.

Addirittura a Jogbani (prima cittadina indiana dopo la nepalese Biratnagar) importante posto di transito, gruppi d’indiani hanno manifestato contro i maoisti (ma come sempre accade contro tutti i nepalesi) per difendere l’identità indiana. Gente che non sa cosa fare come chi, in Nepal, fa l’antindiano. Più a nord nell’Upper Karnali, i maoisti hanno minacciato di bloccare la costruzione della centrale idroelettrica che dovrebbe produrre 300MW e completata all’80%, la ragione: è costruita da imprese indiane (ma con personale nepalese che rischia il posto).

Intanto a Kathmandu le ore di blackout programmate per mancanza d’energia sono arrivate a 11 al giorno.

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