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Mio padre era fascista, un libro di Pierluigi Battista

Questo libro può essere letto, come oramai accadde abitualmente per quello di Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti, come un passaggio culturale necessario nella storia del costume: il libro di Pansa tolse per sempre l’aureola ai partigiani, questo rende giustizia a quelli che votavano Msi.

Nei giorni scorsi ho avuto il piacere di assistere, presso il Circolo dei Lettori di Via Bogino a Torino, alla presentazione che Pierluigi Battista a fatto del suo ultimo e già famoso libro Mio padre era fascista edito da Mondadori.

La splendida copertina con il Colosseo quadrato dell’Eur di Roma evoca i percorsi nella Roma mussoliniana, scanditi dal «guarda!» con cui Vittorio Battista indicava a un ragazzino perplesso i monumenti costruiti e le strade aperte dal Duce, sempre rigorosamente nell’onomastica originale: via dell’Impero, Foro Mussolini; nelle gite fuori porta non si andava a Latina ma a Littoria, a Sabaudia non si ammiravano le dune ma la piazza, a Firenze prima degli Uffizi si visitava la stazione di Piacentini.

Col suo autobiografico lavoro Pierluigi Battista riapre le ferite di un rapporto irrisolto, quello con il padre. Vittorio è uno di quei fascisti che a vent’anni parti volontario dalla sua città (Roma) per l’avventura della Repubblica Sociale Italiana che fu l’ultimo rigurgito fascista prima della fine della Guerra. Egli con questa opera gli concede idealmente l'onore delle armi, riannodando i fili spezzati di una tormentata vicenda familiare. Si tratta di una modalità adulta di confrontarsi con il ricordo ripercorrendo come conseguenza un pezzo molto tormentato della nostra storia.

L’annichilimento del mondo del padre, ventenne all’epoca della scelta, il ricordo della morte che pose fine ai «decenni della marginalità voluta come simbolo di fedeltà a se stesso», l’angoscia di quella che fu «quella desolata cerimonia di addio alle armi» si somma al senso di colpa che finalmente trova sfogo. Ora, la riconciliazione tra il figlio ribelle e il padre fascista è finalmente arrivata. Ed è tutto ciò il libro di Pierluigi Battista.

Egli ha ricordato: «quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che mio padre Vittorio aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei ragazzi di Salò. «Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla "gabbia del gorilla" in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di esule in Patria nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata. «Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli».

Pigi (nomignolo familiare con cui è conosciuto anche dai suoi lettori) ha continuato: «Mio padre erano due. C’era mio padre integrato. E c’era quello apocalittico. C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro. E c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta, nel suo foro interiore, risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle. C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense, che esibiva con fierezza la sua casa arredata con gusto tradizionale, la sua famiglia numerosa, i simboli del benessere. E c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che lo aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile, schiacciato da un’ombra pesante, mangiato dentro da un’ossessione che non lo abbandonava mai. C’era l’italiano solare, socievole, spiritoso, con un senso dell’umorismo che mi piace ricordare ancora arguto e sottile. E c’era un uomo, mio padre, divorato dal suo lato notturno, esacerbato, cupo, talvolta lugubre».

La sofferenza del padre era naturalmente inasprita dal figlio, che non soltanto aveva scelto la parte opposta, ma rifiutava di ascoltare le sue ragioni, e lo incalzava come se fosse responsabile di tutte le malefatte nell’Italia occupata («sei impazzito, forse? Mi stai accusando pure di aver partecipato alla strage di Sant’Anna di Stazzema?»).

Un conflitto che esplode con la morte atroce dei fratelli Mattei, quando Pierluigi torna a casa rauco dal corteo in cui ha urlato «Lollo libero» e Vittorio — «sei proprio un cretino!» — gli mostra le carte del processo, da cui si deduce con chiarezza che Lollo e gli altri «compagni» sono responsabili del rogo di Primavalle; e «i padri della patria» antifascista «non erano turbati da nessuna scossa, da nessun soprassalto emotivo, da nessun senso di sconfinata ingiustizia per la morte atroce di un bambino bruciato vivo, solo perché era figlio di un fascista. Un figlio di fascista anche lui, come me». Ma il tono medio del libro non è affatto triste. E non solo per la ricostruzione della giovinezza dell’autore, da cui scopriamo un Battista «antifascista militante» negli scontri di scuola e di strada; anche se quando finisce nelle mani di «Roccia», temuto picchiatore, «una montagna di muscoli», si salva solo in quanto figlio dell’avvocato che difende gratuitamente i camerati («vedi de ringrazzià tu’ padre»).

Un padre capace di autoironia, ma che al volante si sorprende a cantare «le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera» o a fare il verso a una celebre scena del film Il federale – «buca», «buca con acqua»... —, che si commuove davanti al Giardino dei Finzi Contini, che rifiuta di fermarsi all’autogrill di Cantagallo perché non hanno servito il suo amico Almirante, che difende gratuitamente pure gli estremisti dell’altra parte chiedendo consulenze linguistiche al figlio — «ma Pigi che diavolo vuol dire “tirare le bocce”?»; «le bocce sono le bottiglie molotov, papà» —, che si diverte a elencare artisti e attori che militarono nella Repubblica sociale (mentre Battista parla di altri scrittori che fecero anche loro i conti con il padre fascista, da Giampiero Mughini a Vincenzo Cerami a Margaret Mazzantini). E alla fine anche chi non ha alcuna accondiscendenza per il fascismo nelle sue varie forme — il regime, Salò, la nostalgia — finisce per provare simpatia per questo padre pieno di humour e di amore frustrato per l’Italia e per i propri figli.

Chi ha la fortuna di conoscere, di persona o attraverso i suoi articoli sul «Corriere», lo spessore culturale e umano di Pierluigi Battista ne ritroverà le radici nella figura del genitore e nell’ambiente familiare, dove si affacciano i fratelli e la madre, innamoratissima del suo uomo fin da quando partì ventenne verso il fronte per restargli accanto a rischio della vita, e dove compaiono anche Silvia, la moglie scomparsa dell’autore, e la loro figlia Marta. Questo però non attenua l’angoscia, anzi rende il lettore ancora più partecipe delle strazianti pagine finali. Vittorio Battista si spegne a 68 anni, poco dopo la morte di Almirante: il suo ultimo riferimento politico, l’uomo che aveva scritto le parole dell’inno del Msi — «siamo nati in un cupo tramonto» — in cui si riconosceva. La sera del funerale, Vittorio diserta la cena dei dirigenti. Chiede al figlio di mangiare una pizza con lui, in silenzio, e ha appena un gesto di disappunto quando Pierluigi fa cadere la brocca dell’acqua. Il padre fascista si spegne serenamente, la famiglia gli si stringe attorno, la barriera ideologica ormai è caduta, ma il figlio ancora non riesce a cavarsi da dentro il dolore.

Il nodo si scioglie cinque anni dopo. Battista racconta che mentre segue per «La Stampa» il congresso di Fiuggi, in cui l’Msi abbandona «la casa del padre» per avviarsi a una stagione effimera ma ricca di potere e di ritrovata rispettabilità. La giornata gli scorre via tra gli appunti, la stesura dell’articolo, la cauta apertura al nuovo corso da parte del «giornale di Bobbio e Galante Garrone», la cena con i colleghi, le celie su «er Pinguino» o «er Pecora», il riposo in albergo. «Non sapevo cosa mi aspettasse oltrepassando quella porta: il luogo imprevisto dove stava per cominciare la notte dello strazio e della disperazione, la notte in cui la calma delle ore precedenti andò in fumo e mi misi mio malgrado a battagliare senza tregua con il fantasma di mio padre fascista». Febbre altissima, brividi sotto il piumone, vomito, panico. «Un pianto interminabile, ore e ore senza pace, sgomento, esterrefatto per quel precipitare in un gorgo per me ignoto». E il desiderio di sentire la voce della madre, «per dirle tra i singhiozzi irrefrenabili quanto mi sentissi solo come mai nella mia vita».

Fra le prime reazioni al libro c’è sta quella di Giampiero Mughini per il quale non esistono i padri “fascisti”, esistono i padri e basta. Certamente è vero, ciò che dice Mughini, ma è anche vero che certi padri meritano un ritratto – sia pur postumo – che ne riabiliti agli occhi degli italiani la generosità d’animo, l’onestà intellettuale e l’amore per il proprio Paese. Perché il padre di Battista era un “fascistone” e sui fascistoni i pregiudizi hanno pesato, e molto. E dunque lo sguardo dolente e affettuoso, non privo di rimorso, di un figlio “traditore”. Il ritratto è venuto così bene che questo libro può essere letto, come oramai accadde abitualmente per quello di Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti, come un passaggio culturale necessario nella storia del costume: il libro di Pansa tolse per sempre l’aureola ai partigiani, questo rende giustizia a quelli che votavano Msi.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di jgniger (---.---.---.58) 5 marzo 2016 07:18

    Alcuni lo chiamano revisionismo storico in senso dispregiativo, ma occorre dire che a riguardare le pagine della guerra civile o dell’epopea resistenziale che dir si voglia, non si può certo dire che la scelta che i ventenni del 1943 furono costretti a fare dopo l’otto settembre fu facile e priva di sentimento. Questo libro mi pare equilibrato dal punto di vista della "revisione" .

  • Di Giacomo Nigro (---.---.---.58) 5 marzo 2016 10:23
    Giacomo Nigro

    Condivido ed aggiungo che ascoltare di persona l’autore è stata per me un’esperienza appagante, ero preparato sull’argomento e Pigi è, veramente un simpatico intrattenitore, oltre che un ottimo, intelligente giornalista ed un bravo figlio.

  • Di latres (---.---.---.134) 6 marzo 2016 01:57

    Il tema è dibattuto oramai da anni. Che si tratti di guerra civile o guerra partigiana alla Rsi, sempre delle conseguenze dell’otto settembre stiamo parlando. Chi si trovò a scegliere lo fece in ragione di condizioni date e di coscienza. La Storia si è largamente espressa, vince quella scritta dai vincitori come sempre. I questo caso i vinti hanno avuto modo di esprimersi largamente.

  • Di Giacomo Nigro (---.---.---.58) 6 marzo 2016 09:41
    Giacomo Nigro

    Un esempio: 

    L’esodo istriano, l’epurazione forzata di tutti gli individui di etnia italiana residenti in quelle terre, interessò almeno trecentomila persone e fu accompagnato da un vero e proprio sterminio nascosto ai più tramite l’infoibamento, ovvero l’uccisione e la sepoltura delle vittime nelle foibe, le grotte carsiche che caratterizzano il territorio.

    Questa tremenda pagina della storia del nostro Paese, che racconta episodi di barbarie commesse su migliaia di cittadini innocenti, talvolta colpevoli solo di essere italiani, che vennero torturati e gettati, molti ancora vivi, dentro le cavità naturali presenti sull’altipiano del Carso, richiama le nostre coscienze a interrogarsi su come sia possibile pianificare lo sterminio di intere popolazioni unicamente sulla base della appartenenza dei membri di quella comunità ad una etnia o ad un sentire politico.

    La storia ha continuato a proporci orrori simili, ad ogni latitudine, anche in epoche recentissime, quando, superate le censure legate alla Guerra Fredda, la cognizione generale di quei fatti era universalmente diffusa. Basti pensare al Ruanda o alla Bosnia e le relative “pulizie etniche”.

    E’ dunque evidente quanto bisogno ci sia di ricordare. Capire in quali abissi può sprofondare l’uomo a causa della “banalità del male” è essenziale per sperare che il mondo non ricada mai più in quegli orrori.

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