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Meno ricercatori, più donne: come cambia l’università italiana

Nelle università statali i professori associati sono ormai diventati più di tutti i ricercatori. Al contempo, gli atenei sono sempre più “rosa”.

di Nicolò Berti e Alessio Vernetti

Il mondo delle università italiane è cambiato significativamente nel corso degli anni, aprendosi alle nuove tecnologie e adattandosi ai cambiamenti economici e sociali. Alle prime ed antichissime università statali come l’Alma Mater Studiorum di Bologna (la più antica università dell’Occidente, fondata nel lontano 1088) si sono aggiunti nel tempo molti altri atenei, sia pubblici che privati. Proviamo dunque a capire come è cambiato il mondo universitario italiano negli ultimi anni: ci avvarremo a tal fine del database del consorzio inter-universitario Cineca relativo ai docenti e alle strutture.

In totale, tra istituti statali e privati, l’Italia annovera 98 atenei universitari sparsi su tutto il territorio nazionale. In ogni regione italiana è presente almeno un’università, ma ve ne sono alcune – come la Lombardia e il Lazio – che ne contano più di dieci ciascuna. Dei 67 atenei statali, 8 hanno sede in Lombardia, 7 in Toscana e 6 in Lazio e Campania. Dei 31 istituti privati, invece, quasi due terzi sono concentrati nel Lazio (13) e in Lombardia (7).

Alcuni atenei presentano delle peculiarità che li differenziano da quelli “classici”: tra le 67 università pubbliche si annoverano infatti tre scuole di formazione dottorale (il Gran Sasso Science Institute, la SISSA di Trieste e l’IMT di Lucca), altre tre scuole superiori universitarie (la Normale e il Sant’Anna a Pisa e lo IUSS a Pavia) e due università per stranieri (a Siena e Perugia). Tra i 31 atenei privati, invece, si contano una sola università per stranieri (a Reggio Calabria) e ben undici università telematiche, di cui più della metà (6) hanno la propria sede centrale nel Lazio.

 

Ma quali sono le discipline con il maggior numero di docenti, professori e ricercatori? Occorre premettere che ciascun accademico appartiene a una delle 14 aree disciplinari delineate dal MIUR, le quali però sono molto ampie: ogni area è infatti divisa in macrosettori, poi in settori concorsuali e infine in settori scientifico-disciplinari (SSD). Ogni professore e ricercatore universitario è pertanto incardinato, per la sua attività di ricerca e insegnamento, in uno specifico SSD.

Scienze mediche (codice 06) è l’area che conta più accademici sia nelle università statali che in quelle private, con 8119 docenti nelle prime e 747 nelle seconde (al 31 dicembre 2018). Nelle università pubbliche il secondo posto spetta a ingegneria industriale e dell’informazione (area 09) con 5359 docenti, mentre la medaglia di bronzo va a scienze biologiche (area 05) con 4552 accademici. A chiudere la classifica delle università statali è il ramo delle scienze della Terra (04) con 1023 tra professori e ricercatori, preceduto da quello delle scienze politiche e sociali (14) con 1465 docenti nelle università statali.

Nelle università private, al secondo posto dietro scienze mediche troviamo le scienze economiche e statistiche (area 13, con 741 docenti). Gli istituti non statali sembrano inoltre “trascurare” le scienze naturali: a chiudere la classifica sono infatti le scienze fisiche (solo 35 tra professori e ricercatori), quelle chimiche (11 docenti) e quelle della Terra, nelle quali addirittura non risulta appartenere alcun accademico.

Questo il quadro generale. Tuttavia, per comprendere in quali discipline le università investano di più (e pertanto in quali potremmo aspettarci un’espansione oppure una contrazione nel numero di accademici nei prossimi anni), occorre esaminare le proporzioni numeriche tra le cariche accademiche: la carriera negli atenei comincia come ricercatore, per poi proseguire – per chi riesce a superare vari step – come professore associato (o di seconda fascia) e, infine, come professore ordinario (o di prima fascia), il ruolo ultimo e più ambito di ogni accademico. Tuttavia, il quadro dei ricercatori appare particolarmente complesso: con la riforma Gelmini del 2010 è aumentato esponenzialmente il numero dei ricercatori a tempo determinato (TD), già introdotti sotto altre forme con la legge 230 del 2005, mentre la categoria dei ricercatori a tempo indeterminato (TI) è diventata ad esaurimento, poiché dal 2010 non vi sono più state nuovi assunzioni.

Se un’area disciplinare possiede una base di ricercatori molto ampia, dunque, significa che è stata oggetto di investimenti in anni recenti; al contrario, se i professori ordinari – traguardo ultimo e più ambito da ogni accademico – sono numerosi in rapporto agli associati e ancor più rispetto ai ricercatori, l’età media degli accademici è più alta e le nuove assunzioni negli ultimi anni sono quindi state più contenute.

Precisiamo: nelle università statali, in ognuna delle 14 aree disciplinari i professori sono sempre in numero maggiore rispetto ai ricercatori. In alcune aree (economia e statistica, fisica, ingegneria industriale e dell’informazione) i professori arrivano addirittura ad essere il doppio dei ricercatori: a prima vista questo sembrerebbe far intuire un basso tasso di rinnovo della popolazione accademica di queste facoltà, ma in realtà, se si vanno ad osservare i rapporti numerici tra i ricercatori a tempo indeterminato e i loro omologhi assunti a tempo determinato, si scopre che non necessariamente è così. Infatti, scienze fisiche e ingegneria industriale e dell’informazione sono le due uniche aree in cui i ricercatori TD sono in numero maggiore rispetto ai ricercatori TI e, poiché i ricercatori a tempo determinato sono una figura nata da pochi anni, ciò significa in queste due facoltà si è assistito a un grande investimento con l’assunzione di nuovo personale.

Quello di scienze giuridiche costituisce, ad ogni modo, l’unico caso in cui è davvero possibile – sempre nelle università statali – prevedere un declino numerico: si tratta infatti della sola area in cui gli ordinari, che sono tendenzialmente i più prossimi al pensionamento, sono in numero maggiore rispetto agli associati (seppur di sole 28 unità). Inoltre, se in tutte le altre 13 aree disciplinari i ricercatori a tempo determinato sono almeno il 12% del personale docente complessivo, tra i giuristi questa nuova figura conta solo per l’8% del totale.

E nelle università private? Anche se abbiamo visto che i numeri sono più contenuti, ci sono delle discipline in cui i ricercatori sono più dei professori, in primis nel ramo medico, dove osserviamo la presenza di 380 ricercatori e 367 professori. Gli atenei privati, soprattutto nel ramo delle scienze applicate, sembrano dunque più propensi ad avere un’ampia base di ricercatori rispetto alle università statali. Ciò è peraltro confermato dal fatto che i ricercatori a tempo determinato sono tendenzialmente una percentuale piuttosto elevata del personale docente totale: questa nuova figura arriva addirittura a costituire ben il 49% degli accademici assunti da università private nell’area dell’ingegneria industriale e dell’informazione.

 

Osservando l’evoluzione degli organici dal 2000 al 2018 scopriamo come, nelle università statali, il numero di professori ordinari abbia raggiunto l’apice nel 2006 con 19.056 unità, per poi calare lentamente, anno dopo anno, fino alle 12.303 registrate al 31 dicembre dell’anno scorso. Quello che però è interessante notare è che, soprattutto a partire dal 2014, i ricercatori a tempo indeterminato sono diminuiti drasticamente (essendo diventati una categoria ad esaurimento), ma contemporaneamente sono cresciuti i professori associati, segno che molti ricercatori sono riusciti a proseguire nella propria carriera passando di ruolo.

Tuttavia, l’assunzione di ricercatori a tempo determinato a partire dal 2005 non è bastata a impedire il sovvertimento della struttura piramidale che contraddistingueva la gerarchia accademica: se nel 2000 i ricercatori totali erano più degli associati, che a loro volta erano più degli ordinari, al 31 dicembre 2018 sono gli associati (19.676) ad essere più numerosi dei ricercatori (18.836). Questi ultimi nel loro complesso sono cresciuti di oltre 6 mila unità dal 2000 al 2012, per poi diminuire e tornare, per via dei tagli che hanno colpito il mondo della ricerca accademica, agli stessi livelli del 2000.

Le università private, dal canto loro, sembrano essere state meno colpite da questa dinamica: a differenza degli atenei statali, nel 2018 i ricercatori totali sono più numerosi della somma di ordinari e associati. Inoltre nelle università private la nuova figura dei ricercatori a tempo determinato è stata introdotta più velocemente e con meno difficoltà, tant’è che se nelle statali essi rappresentano il 13,5% del personale totale (6.850 unità su 50.815), nelle private costituiscono, al 31 dicembre 2018, il 25% del corpo accademico (866 su 3.469).

 

Quando queste stesse dinamiche vengono analizzate da un punto di vista di genere, salta all’occhio un dato interessante: le università sono diventate più “rosa”. Negli atenei statali le donne rappresentavano il 29% del corpo accademico al 31 dicembre del 2000, mentre 18 anni dopo tale quota è salita al 38,1%. Questa crescita ha riguardato tutte le posizioni accademiche: sempre restando nelle università statali, le ordinarie sono cresciute dal 13,4% al 24%, le associate dal 27,9% al 38,5% e le ricercatrici a tempo indeterminato dal 41,9% al 49,4%. Questi numeri, però, ci dicono anche che al progredire della carriera accademica continuano ad esserci sempre meno donne che uomini. Inoltre, la recente figura dei ricercatori a tempo determinato vede comunque una prevalenza maschile (le donne sono il 42,5% e gli uomini il 57,5%), mentre tra la figura a esaurimento dei ricercatori TI si registra una sostanziale parità (49,4% di donne e 50,6% di uomini). In sintesi, dal 2010 ad oggi anche tra i nuovi ricercatori TD si sono assunti più uomini che donne.

Anche nelle università private le donne sono aumentate, sia in generale che nelle singole posizioni accademiche: se nel 2000 erano complessivamente il 27,4%, nel 2018 sono esattamente il 7% in più (34,4%). Le professoresse ordinarie, in particolare, sono passate dall’11,3% al 20,2%, mentre le associate sono cresciute di oltre 14 punti in 18 anni (sono il 36,8% al 31 dicembre 2018) e le ricercatrici a tempo indeterminato di 7,5 punti (toccando così il 45,1%). Tuttavia, con l’eccezione delle ricercatrici a tempo determinato (che sono il 45,4%), in tutte le altre 3 posizioni della gerarchia accademica le donne negli atenei privati sono percentualmente meno rispetto alle colleghe che lavorano nelle università statali.

Aggregando atenei pubblici e privati, scopriamo che due sono le aree disciplinari in cui vi sono più accademiche che accademici: le scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche, dove il 54,1% del personale docente è rappresentato da donne, e le scienze biologiche, con il 53,1% dei ruoli ricoperti dal gentil sesso. Complessivamente, al 31 dicembre 2018 le donne rappresentano comunque il 37,8% del personale accademico: al di sotto di questa media si trovano però solo aree disciplinari relative a scienze naturali o applicate. In particolare, nel ramo dell’ingegneria industriale e dell’informazione solo il 17,6% dei professori e dei ricercatori è donna: si tratta dell’area meno “rosa” di tutte.

 

Le università italiane sembrano dunque dirigersi, seppur lentamente e con differenze a seconda dei ruoli accademici, verso la parità di genere. Al contempo, però, i tagli a cui è stato soggetto il mondo dell’università italiana hanno reso più instabili le prospettive di lavoro per tutti i nuovi ricercatori, rispecchiando quella sorta di flessibilità ormai tipica di molte altre professioni.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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