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Media indiani, un mondo per Modi

Se il potere detesta l’informazione, le autocrazie passano alle vie di fatto. 

L’abbiamo visto in Russia, col killeraggio precedente e contemporaneo dell’era Putin, nella Turchia erdoganiana che continua a riempire le galere di cronisti e opinionisti, nell’Egitto del golpista Sisi che i giornalisti li imprigiona e li fa sparire. Passando per il ‘riformatore’ saudita Bin Salman, il principe-sovrano capace di far tagliare a pezzi l’editorialista, un tempo di corte poi divenuto scomodo, Jamal Khashoggi e far passare tutto per incidente causato da un’Intelligence un po’ esuberante. Certi piccoli-grandi omicidi, efferati e misteriosi, sono accaduti anche da noi coi De Mauro, Alfano, Fava, Impastato, Alpi. Commistioni delittuose di Stato e mafia, come le ultime della maltese Caruana Galizia e dello slovacco Kuciak. Oltre a perseguire i singoli e, magari, sbarazzarsene, comunque i regimi ottengono più dalla crudezza di leggi, o dall’aria che tira, che dalla crudeltà di esecuzioni esemplari. E’ l’intimidazione scivolosa che ottunde l’operato di quel giornalismo poco propenso al senso civile e deontologico d’una professione che deve controllare il potere, non incensarlo e servirlo. Nell’India di Modi quest’operazione è in atto in un settore che, come tutto nella nazione-continente, giganteggia. Difficile trovare altrove un patrimonio che, secondo il New York Times, vanta 17.000 quotidiani e quasi 100.000 periodici. Con l’aggiunta di ben 178 emittenti televisive. Un mondo. Dal quale il politico che opprime col sorriso del buon padre di famiglia, ha già ottenuto una santificazione divulgando la sua storia (vera) di uomo venuto dal nulla che punta a unire e proteggere la nazione indiana (nota piuttosto stonata e falsa).

Al di là di questioni di per sé divisive come la contestatissima legge sulla migrazione da Stati attigui che è consentita a tutte le minoranze religiose ad eccezione dei musulmani. Oppure la recentissima applicazione, anche ora in piena emergenza pandemica, della cittadinanza nella regione autonoma del Kashmir, che grazie al governo ha perduto la sua originaria autonomia sancita dalla Costituzione, i fedeli ministri di Modi sono in caccia costante di quei cronisti disposti a descrivere ciò che non va, a raccontare lati oscuri dell’amministrazione, fossero anche storie minute ma indicatrici della mistificazione e della propaganda a senso unico di cui il governo si circonda grazie all’acquiescenza di una stampa controllata o asservita. Un video di un giornalista precario, finito sul web e diventato visitatissimo, descriveva le condizioni di mancato sostegno agli studenti d’una scuola nella provincia di Varanasi nutriti per l’intera giornata solo con una focaccia. Beh, il reporter s’è ritrovato sul groppone una denuncia penale per falso, truffa e cospirazione, così da rischiare sino a sette anni di reclusione. Il caso non è affatto singolare né singolo. E purtroppo parecchio personale dedito all’informazione nella migliore delle ipotesi pensa a non rischiare il posto di lavoro, viste le pressioni a catena rivolte dal governo agli editori e da quest’ultimi ai giornalisti. Ma ci sono anche parecchi che accettano l’omologazione. Specie fra i mezzibusti televisivi s’è scatenata una corsa al comportamento più zelante e disponibile alle tendenze più estreme e fanatiche, anche sotto l’ottica del fondamentalismo religioso, di cui il governo si rende protagonista. La moda d’essere per Modi, rischia di trasformare i media indiani nel mondo di Modi. E pure in quelle latitudini il potere s’è “liberato” di talune penne libere.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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