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Media e psicosi al tempo del Coronavirus

Neanche l’Edgar Allan Poe della Maschera della morte rossa avrebbe potuto competere con gli scenari apocalittici pubblicati da giornali e agenzie, amplificati nei salotti televisivi con il supporto di epidemiologi più o meno noti e qualificati. Come scriveva Poe: “Non si vide mai peste così fatale e orribile”.

Segregati in casa, televisione accesa H24, gli italiani nonostante il continuo cambio di canale hanno dovuto imparare i comandamenti di salute e igiene pubblica e privata che una sapiente classe medico-politica ha imposto come l’unica via di salvezza, l’alternativa al forno crematorio che qualche azienda marketing oriented ha preferito definire “Tempio”, non si sa mai che il termine “forno” richiamasse altri infausti tempi.

Nonostante le autocertificazioni sulla limitazione degli spostamenti, già arrivate a quota due in qualche giorno con migliaia di denunce, a cui si sono aggiunte le ordinanze di chiusura di spiagge e parchi, sempre per il bene dei cittadini, con il passare dei giorni i capisaldi della nostra sanità pubblica (almeno quella scampata ai ripetuti colpi di machete inferti da Stato e Regioni negli ultimi trent’anni) cadevano sotto il peso della catastrofe coronavirus. Eppure già il Corriere della Sera, come ha ricordato Radio Radio, aveva pubblicato il 10 gennaio 2018 un articolo dal titolo profetico: “Milano, terapie intensive al collasso per l’influenza: già 48 malati gravi molte operazioni rinviate”. 

Ma non era stata nel 2018 la stessa ANSA a titolare “La polmonite causa 11.000 morti l'anno, prevenirla è possibile”? Certo non erano tutte polmoniti interstiziali come oggi e non meraviglia neanche che gli italiani non ne sapessero nulla ma ora le discussioni in famiglia, finito il calcio e proibito il bar dello sport, proiettate solo sull’attualità e la cronaca, hanno trasformato tutti da allenatori di coppa in attivisti sfegatati di un’igiene che nella storia non si era mai vista, l'unico risultato positivo. Per i più tecnologici la sfida si sposta sui social con la prospettiva di diventare anche epidemiologi in grado di valutare le scelte di Boris Johnson sull’immunità di gregge un’idiozia, visto che anche il professor Galli, ormai immancabile convitato nelle trasmissioni che si rispettano, ne aveva profetizzato il fallimento.

Il pensiero unico imperante ha trovato un ostacolo imprevisto in un virologo candidato al premio Nobel e allievo di Albert Sabin, Giulio Tarro, che in un’intervista al Giornale ha precisato come, conoscendo gli ambienti accademici di Cambridge o Londra, dietro le parole del premier britannico ci sia “gente molto valida sul campo che pensa, viste le caratteristiche del Coronavirus, che proteggendo le persone che potrebbero risentirne di più come gli anziani o quelli affetti da altre malattie, di far circolare liberamente il virus, non usando quindi le misure che stiamo attuando noi come il rigore e l’isolamento, per cercare di debellare quella che tutto sommato è una malattia che al 96% si risolve senza mortalità. Quindi in base a questo noi avremmo un’immunità di tutta la popolazione”.

Ma a parte valutazioni contrastanti e profezie varie, gli italiani hanno preso tutto sul serio, ascoltano gli inviti perentori a non uscire di casa diffusi dagli altoparlanti delle auto della Polizia locale che girano incessantemente come gli arrotini di un tempo. C’è chi accompagnando il cane per i bisogni indossa pur all’aria aperta la mascherina a mo’ di museruola, qualcuno guida l’automobile con guanti e mascherina e se nelle rare uscite incontra un raro passante mantiene le opportune distanze scappando via veloce. E ci sono anche le cassiere dei supermercati Lidl con tanto di fantascientifiche protezioni in policarbonato e altre meno fortunate con mascherine chirurgiche ma tutte pronte a far rispettare le distanze ai clienti. Anche chi lavora da casa ce la mette tutta ma con i bambini non è una passeggiata.

Ci sono poi tanti anziani che rimangono a casa, seguono piani terapeutici che dovrebbero essere aggiornati ma ascoltando gli avvisi rinunciano e se qualcosa non va rimandano a un futuro imprecisato pensando che forse non vi sia un'urgenza tale da affrontare il calvario delle prenotazioni e delle autocertificazioni. La paura è più forte.

Intanto non si lavora quasi più in attesa del 4 aprile che potrebbe diventare una nuova Festa della liberazione, a meno che non si prosegua con le limitazioni varie e allora davvero il COVID-19 parrebbe una meteora rispetto allo tsunami del virus economico-finanziario e produttivo.

Andrà tutto bene?

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