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Marisa Ombra, «partigiana e femminista»

A un mese dalla morte la ricordiamo con un testo ripreso da «Patria Indipendente» (*)

Marisa Ombra, «partigiana, femminista, della Presidenza nazionale dell’Anpi», è scomparsa nella notte fra il 18 e il 19 dicembre. Una grande donna, autorevole e autentica, che convinceva e seduceva con intelligenza e gentilezza

Nata nel maggio del 1925, ci ha lasciato nel dicembre 2019. 94 anni. Una bella età, si dirà. Una legge inesorabile ti fa accettare la scomparsa di una persona cara, quanto più questa è avanti con gli anni. Peraltro Marisa da tempo era assente, non comunicava più, ridotta a casa, a letto, per le sue condizioni di salute sempre precarie. Ciononostante la sua scomparsa, prevista, attesa, è stata una lacerazione, uno strappo violento per tutti, per l’Anpi. Fra gli altri, per noi, quelli che “fanno” Patria Indipendente. Un dolore. Un grande dolore.

Marisa aveva più volte collaborato con questa testata con interviste e articoli. Era vicepresidente nazionale dell’Associazione e fino a qualche tempo fa aveva onorato la sua responsabilità in ogni modo, girando per l’Italia, nelle riunioni del gruppo dirigente, nella vita quotidiana della sede centrale in via degli Scipioni a Roma.

Figlia del comandante partigiano Celestino Ombra, era stata una staffetta e così si era forgiata. Dopo la Liberazione aveva continuato il suo impegno a tutto tondo nel movimento delle donne, riportando poi quest’esperienza nella sua attività di dirigente nazionale dell’Anpi in ogni modo, ricordando il ruolo delle donne nella Resistenza, animando il convegno promosso dall’Anpi sui Gruppi di difesa della donna, operando nel Coordinamento nazionale donne Anpi. La sua “firma” sotto gli articoli pubblicati su questo periodico era la seguente: Marisa Ombra, partigiana, femminista, della Presidenza nazionale dell’Anpi. Ecco, partigiana e femminista. Ci teneva, perché rappresentava la sua identità, incorporava il senso della sua vita. Lo era quando scriveva. E scriveva libri di straordinario interesse, come “Libere sempre. Una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi” o “La bella politica”. E partigiana e femminista è stata fino alla fine. Per questa ragione Marisa incarnava fino in fondo libertà e responsabilità.

Marisa aveva un fascino speciale sia nei suoi discorsi e interventi, sia nelle relazioni interpersonali. Mai si sentivano da lei banalità, luoghi comuni; mai un’ombra di demagogia nelle sue parole, ma lo sforzo costante di interpretare un fenomeno, un evento, di immaginare la più appropriata risposta a un quesito o, meglio ancora, la più appropriata domanda. Mai alzava la voce; forse perché alzare la voce serve per vincere, non per convincere; forse perché alzare la voce – a ben pensare – è in realtà un’ammissione di debolezza. Forse, più semplicemente, perché non era nel suo stile. E così, nelle relazioni interpersonali, ti seduceva nel senso stretto, cioè ti “portava con sé” con le sue riflessioni, i suoi approfondimenti, i suoi dubbi anche, alle volte scomodi, sempre fecondi.

Così la abbiamo vissuta in questi ultimi anni, lei sempre più magra, più debole, le mani sofferenti per l’artrite, e poi col bastone e con la voce sempre più ridotta a un filo. Marisa era un filo: un filo di dolcezza, di dignità, di eleganza, di bellezza (era bellissima da ragazza ed ha mantenuto la sua bellezza dentro, fino alla fine), di sobrietà, di gentilezza. Marisa Ombra è stata una grande e insostituibile dirigente dell’Anpi. La vogliamo ricordare con affetto e commozione, riportando le parole del Coordinamento nazionale donne Anpi:

Bellezza ed eleganza, cara Marisa, erano i tratti caratteristici della tua personalità e del tuo pensiero politico vissuto con una passione smisurata, sempre alla ricerca del filo che unisce passato e presente, con lo sguardo in avanti teso a nuove domande e alla ricerca di nuove risposte.

Autonomia e libertà i tuoi valori profondi per noi divenuti insegnamenti; a noi donne, che abbiamo avuto il privilegio di percorrere un pezzo di strada con te, lasci molto di te, della tua passione, della tua forza. Tante le iniziative per parlare della Resistenza femminile, di come questa esperienza vi abbia radicalmente cambiate; tante le volte in cui abbiamo parlato di noi.

Dirigente appassionata, presente anche quando le forze si stavano facendo più fragili, hai raccontato la storia politica di donne cominciata dentro la Resistenza, sei stata sapiente esempio e portatrice di quella bella politica a te molto cara. A noi oggi resta addosso tutto di te e vogliamo salutarti ricordando il tuo caro sorriso; grazie da tutte noi”.

Marisa Ombra, staffetta partigiana. Eccola, attraverso le parole di un suo articolo pubblicato su Patria Indipendente del novembre 2016.

La vita spericolata della staffetta partigiana

Mi è stato chiesto di portare una testimonianza di quello che le donne hanno fatto, di quello che le donne sono state nella Resistenza. Io vorrei non tanto raccontare dei fatti, ma cercare di restituire il senso di quella scelta, senza naturalmente sottrarmi a qualche brevissima esemplificazione, per rendere più evidente quello che dirò.

Io sono stata staffetta partigiana nelle formazioni garibaldine. Avevo 19 anni quando sono andata nelle Langhe, ne aveva 17 mia sorella che venne con me, ne aveva poco meno di 40 la mia mamma. L’occasione è stata data dagli scioperi del marzo ’44, così importanti per la lotta contro il fascismo e per la fine della guerra. Mio padre era stato arrestato come organizzatore di questi scioperi e prelevato, e praticamente già condannato prima ancora di un processo che non si sapeva ancora se ci sarebbe stato o non stato, ma preventivamente condannato alla fucilazione e alla deportazione. Venne liberato rocambolescamente da un commando di partigiani travestiti da Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che lo portarono nelle Langhe, dove cominciò a organizzare le bande partigiane. Noi, rimaste a casa, eravamo naturalmente molto esposte alla rappresaglia, e scegliemmo di andare anche noi nelle Langhe, dove subito ci separammo e ognuno andò ad operare in zone differenti.

Questo per dire che per me la scelta di fare la partigiana non è stata altro che un semplice, naturale atto di coerenza con la storia familiare, peraltro cominciata molto prima, nell’inverno del ’42-’43 quando, ancora più bambine, io e mia sorella collaborammo a stampare dei fogli clandestini che preparavano lo sciopero del marzo ’43 il quale, insieme allo sbarco alleato in Sicilia, determinò praticamente la caduta di Mussolini. Che cosa faceva una staffetta partigiana? Qui è stato detto ampiamente e vorrei dire che qualunque racconto rischia di essere molto misero rispetto a quello che stato letto con così grande commozione da Marisa e da Leandro. È stato misero per chi è sopravvissuto e, devo dire, del tutto casualmente, perché onestamente a decidere se sopravvivevi o non sopravvivevi è stato essenzialmente il caso.

Vorrei cercare soprattutto di dare il senso di quello che abbiamo fatto, e vorrei dire prima di tutto che il lavoro della staffetta è stato un lavoro molto pericoloso, perché è stato essenzialmente un lavoro solitario. Voglio dire che la staffetta non aveva praticamente nessuna copertura alle spalle, era sola, gli veniva dato un ordine e andava a realizzare questo ordine. Naturalmente, da quel momento in poi tutto dipendeva da te, dalla tua lucidità, dal tuo coraggio, dalla tua prontezza di spirito nel capire che cosa era più giusto fare, e questo non era semplice. E posso dire che non avevi dietro alle spalle chi ti consigliasse, il distaccamento minimamente organizzato, in cui vi fosse un comandante al quale, anche se aveva soltanto la tua età, 19-20 anni, erano state impartite le istruzioni, per cui aveva comunque un’idea su come comportarsi; tu non sapevi niente di niente e dovevi immaginare, inventare velocemente qual era la cosa più giusta da fare. Più giusta nel senso che poteva salvare la tua vita e quella della formazione che ti aveva chiesto di andare a fare questa esplorazione, questa missione. Devo dire che in quei momenti tu ti misuravi con te stessa e, di colpo, da ragazzina diventavi persona adulta, imparavi il senso di responsabilità. Ecco, il senso di responsabilità è stata la cosa più importante che abbiamo imparato nella guerra di Liberazione ed è quello che almeno personalmente mi ha guidato in tutte le fasi successive della mia vita, in cui ho continuato a fare politica con le donne, politica per le donne. Senso di responsabilità personale e senso di responsabilità verso gli altri, verso il mondo, vorrei dire, con una parola che forse è troppo grande ma che riassume bene quello che noi sentivamo.

Devo dire quindi che proprio per quello che abbiamo sentito, per il senso di responsabilità che abbiamo avuto e per il coraggio, la guerra di liberazione non avrebbe potuto essere senza la presenza delle donne, senza questa possibilità di collegamenti, senza questa possibilità di attraversare posti di blocco che naturalmente i partigiani non avrebbero potuto attraversare, cosa che soltanto la capacità diplomatica delle donne, la capacità di invenzione delle donne riusciva a fare, perché lì veramente ti inventavi delle piccole scene, dei piccoli racconti che cercavano di essere il più possibile credibili, perché fossero accettati per buoni dai tedeschi o dai brigatisti neri, e quindi potevi passare.

Perché non si poteva fare la guerra partigiana senza le donne? Perché – questo lo ricordo soprattutto alle ragazze di 19-20 che sono qui presenti, mentre i più adulti hanno sicuramente sentito parlare da padri, fratelli, nonni in che cosa è consistita la guerriglia – perché questa era la qualità della guerra partigiana, era una guerriglia, per cui le formazioni continuamente si componevano e si disperdevano. Perché le zone, per esempio le Langhe e il Monferrato, dove io operavo, erano circondate costantemente da tedeschi e brigate nere, che continuamente entravano muniti di carte molto raffinate e rastrellavano cascina per cascina, sentiero per sentiero. Ovviamente, c’erano momenti in cui i partigiani erano in grado di dare battaglia, facevano la scaramuccia e poi si ritiravano, e c’erano momenti in cui l’unica possibilità era nascondersi per ricomporsi. Voi capite che in questa situazione, se non c’era chi ricercava, rimetteva in contatto, ricollegava, contribuiva a riformare le formazioni, nessuna guerriglia avrebbe potuto essere. È per questo che noi abbiamo avuto una testimonianza di grande riconoscimento molto prima che gli storici lo facessero e riconoscessero il nostro come protagonismo, e non solo come contributo. Il primo riconoscimento l’abbiamo avuto proprio dai partigiani con i quali vivevamo, perché loro tra l’altro sapevano in ogni momento che noi non eravamo obbligate ad andare a fare la guerra. I ragazzi erano obbligati, in qualche modo, perché c’erano i bandi dei tedeschi, dei repubblichini, e se non si presentavano venivano dichiarati disertori, e i disertori venivano naturalmente fucilati, o deportati. Per noi non c’erano stati bandi, l’abbiamo fatto per tutte le motivazioni che qui sono state lette. Io credo che riconoscevano che era la prima volta che le donne come massa entravano in guerra, e ci entravano in quel modo, in prima fila; uscivano dal ruolo familiare e si assumevano responsabilità militari, politiche, sociali fondamentali. È la prima volta che le donne entrano effettivamente nella storia.

In fondo il diritto al voto, la legge istitutiva del voto alle donne non è altro che una presa d’atto del tutto ovvia, naturale, di quello che le donne avevano fatto, avevano dimostrato di essere nell’ultimo periodo. Io credo che sia importante ricordare, riflettere ancora su quegli anni, perché una riflessione su quel periodo oltre tutto ci consente di riportare alla verità, alla realtà alcune cose, anche alcuni miti che ancora oggi in forme diverse e riferiti a situazioni diverse, continuano a circolare, per esempio il mito della guerra o del rifiuto della guerra senza se e senza ma. Ma io credo di poter sinceramente testimoniare che alla guerra tu non ci devi arrivare, devi fare di tutto, proprio fino all’estremo atto di diplomazia possibile, per evitare di arrivare alla guerra, perché se ci arrivi, o spari o sei sparato.

Non è vero che se ti trovi in guerra puoi decidere di non usare le armi. Io avevo una minuscola 635 nella tasca, ed era una stupidaggine, perché facendo la staffetta l’ultima cosa che avrei dovuto portare con me era una rivoltella, perché mi avrebbe automaticamente denunciata, però c’erano altre che invece le armi le impugnavano, ed era secondo me inevitabile, perché se ti trovi in guerra – ripeto – o spari o sei sparato. Bisogna non arrivarci.

Come l’altro mito delle donne che hanno portato nelle formazioni conforto, dolcezza, assistenza, aiuto. Io posso dire, credo molto sinceramente – ci ho ripensato molto a quegli anni – posso dire che ho visto ragazzi che mostravano senza pudore la loro fragilità e la loro dolcezza, e ho visto donne con coraggio e con grinta – penso a Breda, che è stata chiamata Breda perché lei ha insegnato ai partigiani come si smontava una bomba a mano chiamata Breda – e quindi non erano queste le differenze. Semmai, la differenza stava intanto nel fatto che i ragazzi erano storicamente allenati alla guerra: dietro ai maschi di tutte le Nazioni c’è una storia di combattimenti, mentre per le donne non c’era nessuna esperienza di questo genere. E alle donne forse possiamo riconoscere una qualità di maggiori arti diplomatiche, ma questo non è un fatto naturale, è un fatto culturale, è un fatto storico, perché le donne, se non imparavano ad essere diplomatiche in famiglia, non avrebbero mai tenuto insieme la famiglia. Quindi è una cosa che viene da lontano. E quindi, questa idea di maternage, che è vera per tante, per tutte quelle che l’8 settembre hanno accolto e vestito i soldati che fuggivano, non è vera, secondo me, per le ragazze che sono state dentro l’esercito di Liberazione. Bisogna fare delle distinzioni molto precise. Io non vado oltre, voglio dire che quel riconoscimento dei compagni partigiani è stato alla base di una profonda amicizia, che mai più ha potuto darsi, per ovvi motivi. C’era un di più in quella amicizia, e direi che è stato anche quello che ci ha guidato negli anni successivi, per far fronte a tutti i momenti in cui è stato necessario ancora resistere e in cui chi ha fatto la Resistenza ha cercato di conservare quell’idea della politica, quel senso della politica al quale erano estranei la carriera, il professionismo, il guadagnare, il farsi posto nella vita, eccetera, e devo dire che di queste cose io ho una profonda nostalgia.

Marisa Ombra, partigiana, femminista, della Presidenza nazionale dell’Anpi

(*) www.patriaindipendente.it

Foto: Anpi Bolognahttps://anpibologna.it/ciao-marisa/

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