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Maggior welfare per le famiglie

Domenica 31 marzo 2019 si sono conclusi i lavori del Congresso Mondiale delle Famiglie. Al di là delle polemiche che sono state suscitate dai temi in discussione, ci sono due pericolosi messaggi che sono stati lanciati da quel palco: in primo luogo è stato detto che la crisi attuale delle famiglie è scaturita dalla posizione della donna all'interno della società e della famiglia stessa; in secondo luogo si è ribadito che l'unica tipologia possibile di famiglia è quella "naturale".

Per quanto riguarda la seconda affermazione ritengo che non esista una sola tipologia di famiglia, in quanto, secondo me, la definizione di famiglia è soggettiva perché connaturata a chi ritiene di farne parte e, soprattutto, appartiene alla sfera personale ed emotiva di ognuno di noi. Inoltre, penso che la definizione di famiglia data dall'articolo 29 della costituzione ("La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.") sia da considerarsi superata e che debba essere oggetto di revisione costituzione affinché diventi attuale e coerente con le leggi che riconosco maggiori diritti alle unioni civili (Legge c.d. Cirinnà). Soprattutto, penso che riconoscere i diritti alle famiglie arcobaleno non tolga nulla alla cosiddetta "famiglia tradizionale".

L'argomento che cercherò di trattare in questo articolo, invece, riguarda la prima affermazione di cui sopra, e cioè che la "famiglia tradizionale" e la natalità siano messe in crisi dalla posizione della donna nella società e soprattutto nella famiglia. Questa affermazione oltre che esser falsa è soprattutto utile a nascondere i veri motivi della crisi: cioè, la diminuzione delle risorse necessarie a garantire il welfare familiare; la mancanza di stabilità, di opportunità e di uguaglianza del lavoro femminile rispetto a quello maschile. Tali motivi, oltre ad essere la realtà dei fatti, sono stati dimostrati dai numeri e dalle statistiche che descrivono la nostra società e che proverò mostrarvi.

I numeri alla mano

1) Posti disponibili negli asili nido

Stando ai dati Istat dell'ultima rilevazione relativa all'anno scolastico 2016/2017, le strutture pubbliche e private presenti sul territorio italiano sono in grado di accogliere solo il 24% (cioè 1 bambino su 4) dei bambini sotto i tre anni, inoltre, questo dato è ben lontano dall'obiettivo europeo, che chiede ai Paesi membri che nei nidi ci sia spazio almeno per un terzo della popolazione di riferimento.

Lo studio ci dice anche che a parità di popolazione, nelle regioni del Nord ci sono più posti disponibili negli asili. Valga, su tutti, il confronto tra le province di Milano e Napoli. Nella prima i residenti under 2 al 1 gennaio 2016 erano 83mila, contro i poco meno di 87mila della seconda. Eppure nel capoluogo lombardo i posti disponibili negli asili erano 15mila, contro gli appena 2mila del capoluogo campano. Altri esempi sono i seguenti: la provincia di Roma, ad esempio, è capace di accogliere negli asili nido del territorio poco meno del 20% dei bambini di età inferiore ai due anni. In generale, il record positivo spetta a Gorizia, che ha spazio per il 29,7% dei bambini. Mentre la prestazione peggiore si registra a Caserta, dove i nidi garantiscono un posto ad appena lo 0,3% della popolazione di età inferiore ai 2 anni.

Per quanto riguarda, invece il costo scaricato sulle famiglie, lo studio ci dice che in generale le maggiori percentuali di costi scaricati sulle famiglie si registrano nei territori nei quali è anche più alta l’offerta di posti disponibili. Mentre in quelle province in cui l’offerta è minore è anche più bassa la somma a carico delle famiglie.

2) Spesa mensile delle famiglie per la sanità

Secondo le recenti elaborazioni su dati Istat presenti nel Rapporto OASI 2018, una famiglia con un reddito basso in Italia spende in media ogni mese per la propria salute un decimo di quanto spende una famiglia appartenente al gruppo di reddito maggiore: 25 euro contro 254 euro, fra medicinali, cure dentistiche, dispositivi biomedicali e assistenza. I dati, quindi, ci dicono che più cresce il reddito delle famiglie meno queste spendono in proporzione per i medicinali.

Inoltre, la metà delle famiglie appartenenti al primo gruppo risiede nelle regioni del Sud, quasi un componente su cinque è disoccupato e tre su quattro non hanno un diploma.

3) La forza lavoro a livello familiare

Con buona pace delle lotte per l’emancipazione femminile, i numeri Istat relativi alle rilevazioni delle forze di lavoro a livello familiare per il 2016, ci raccontano che in Italia sono ancora le donne ad occuparsi dei figli, e se in una coppia c’è qualcuno che deve lasciare il lavoro per prendersi cura dei bambini, tocca più spesso a lei che a lui.

Il primo dato che permette di comprendere come stiano le cose è quello legato al tasso di disoccupazione, suddiviso per genere, all'interno delle coppie con figli: il tasso di disoccupazione femminile è decisamente superiore a quello maschile nelle coppie tra i 25 ed i 34 anni con figli, e certamente su questi numeri incide anche il dato relativo alla disoccupazione giovanile.

Il secondo dato, invece, è quello relativo alla tipologia di occupazione: più della metà delle coppie tra i 25 ed i 34 anni in cui l’uomo ha un lavoro ha tempo pieno e non ci sono figli vedono anche la donna pienamente occupata. Se però c’è almeno un bambino, la percentuale scende ad una su quattro. Mentre poco meno del 47% delle coppie con figli in cui il papà lavora vedono la mamma uscire dal mercato del lavoro. Molto probabilmente per prendersi cura del piccolo.

4) Il Gender pay Gap

L’OCSE ha pubblicato i dati più recenti intorno al problema del Gender wage Gap, la differenza salariale fra uomini e donne. L’Italia si è collocata in una posizione apparentemente buona, con un gap nella retribuzione oraria del 5,6%. Ma limitarsi a sintetizzare una situazione così articolata con un unico numero è uno sguardo parziale.

Questo 5,6% medio non descrive affatto la situazione che vive la maggior parte delle donne: anzitutto, il dato OCSE riguarda solamente i lavoratori full time, mentre sappiamo che quattro donne su dieci oggi lavorano part-time (dato Istat). In secondo luogo misurare il gender pay gap unicamente sulla retribuzione oraria è una visione parziale del problema, che non considera appunto la disoccupazione femminile, part-time incluso, e le differenze fra settore pubblico e privato.

Conclusioni

Di questi argomenti naturalmente nel Congresso non si è parlato, invece è proprio cercando di risolvere questi problemi e di colmare queste lacune che si riesce a fermare la crisi che le famiglie stanno vivendo.

Bisogna perciò aumentare le risorse nel welfare a disposizione delle famiglie e soprattutto c'è la necessità di riformare la normativa relativa al lavoro femminile.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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