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Madri di ’ndrangheta. Dopo la ribellione, l’acido

Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola. Due nomi che forse ai più diranno molto poco. Due donne che hanno in comune storie di 'ndrangheta, la ribellione al sistema criminale e l'acido che le ha uccise. Una a Milano, l'altra a Reggio Calabria.

Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola. Due nomi che forse ai più diranno molto poco. Due donne che hanno in comune storie di 'ndrangheta, la ribellione al sistema criminale e l'acido che le ha uccise. Una a Milano, l'altra a Reggio Calabria. Tutte e due queste donne hanno visto da vicino cosa sia la 'ndrangheta, una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo. Ci hanno convissuto per anni, sposando affiliati, facendo figli, rimanendo in silenzio. Fino a che quel silenzio non è stato più sopportabile. E da quel punto sono partite le denunce e la collaborazione con la giustizia, fino a temere le ritorsioni da parte delle stesse famiglie con cui avevano convissuto per anni.

La principale ragione per cui si sono ribellate era comune: i figli e il loro futuro. Il loro sogno è stato dare ai propri figli un futuro normale, staccarli dal clima mafioso. Per farlo hanno denunciato e sono morte. Due storie comuni, da una terra comune, la Calabria, che avevano in comune perfino l'età: Maria Concetta Cacciola, 31 anni, Lea Garofalo, 35. L'età in cui si diventa madri. Maria Concetta Cacciola è morta la mattina del 22 agosto, dopo aver ingerito, almeno secondo le prime ricostruzioni degli investigatori, dell'acido muriatico nel bagno dell'abitazione dei genitori a Rosarno. Un suicidio su cui nei prossimi giorni sarà necessario fare chiarezza. La donna era figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Gregorio Bellocco, uno dei capi di spicco dell'omonima cosca di Rosarno, che insieme alla cosca dei Pesce, gestiscono i traffici mafiosi nel rosarnese. Lo scorso maggio, anche in seguito alla condanna a otto anni per associazione mafiosa inflitta al marito, Salvatore Figluizzi, Maria Concetta Cacciola avava iniziato la sua collaborazione con la giustizia italiana, intraprendendo il percorso di testimone di giustizia.

Come da programma la donna era stata poi trasferita in località protetta, dove era rimasta fino al 10 agosto per poi far ritorno a Rosarno per trovare i figli, nel frattempo a casa dei nonni, in attesa del perfezionamento delle pratiche per il ricongiungimento in località protetta con la madre. La sua collaborazione, dopo una serie di dichiarazioni, si ferma drammaticamente in una caldissima giornata di agosto. Giornata in cui Maria Concetta Cacciola incontra la morte ingerendo dell'acido muriatico. Quell'acido che nel novembre 2009 ha consumato anche la vita di Lea Garofalo, compagna di Carlo Cosco, boss di una delle cosche di 'ndrangheta del crotonese. Una storia travagliata, piena di difficoltà e maturata tra Reggio Calabria, Campobasso e Milano. Lea è a conoscenza di tantissime dinamiche all'interno della famiglia e nel 2002 inizia la sua collaborazione con la giustizia. Da quel momento in poi Lea Garofalo dovrà guardarsi le spalle e crescere anche la figlia Denise, avuta con Carlo Cosco. Lo stesso Carlo Cosco che dal luglio scorso è processato a Milano come mandante per l'omicidio di Lea Garofalo, uccisa in un capannone della periferia milanese vicino Monza e poi sciolta nell'acido. Scrivono gli inquirenti milanesi, cercando di individuare il movente dell'omicidio Garofalo: "Le ragioni poste alla base dell’eliminazione della donna risiedono nel contenuto delle dichiarazioni fatte ai magistrati, mai confluite in alcun processo, con particolare riferimento all’omicidio di Antonio Comberiati, elemento di spicco della criminalità calabrese a Milano durante gli anni ’90, ucciso per mano ignota il 17 maggio 1995. Le dichiarazioni fatte all’epoca dalla Garofalo individuavano, infatti, nei responsabili dell’omicidio l’ex convivente della donna, Cosco Carlo, e il fratello di questi, Giuseppe, detto Smith".

Nel 2009 Lea Garofalo aveva scelto di uscire dal programma di protezione, e da quel momento in poi le pressioni di Cosco si sono fatte sempre maggiori, fino alla sparizione di Lea Garofalo, fatta risalire dagli inquirenti al novembre dello stesso 2009. Due storie di donne, divorate dall'acido che diventa metafora del fardello che le organizzazioni criminali pongono sulla schiena degli affiliati e delle persone a loro vicine. Un fardello che spesso è alimentato dalla solitudine in cui i testimoni di giustizia spesso si trovano e con cui fare i conti è ogni giorno più difficile.

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