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 Home page > Tribuna Libera > Ma Di Battista vuole tendere una mano all’Isis? Non credo

Ma Di Battista vuole tendere una mano all’Isis? Non credo

Alessandro Di Battista è stato coperto di insulti per il suo post a proposito dell’Isis: l’accusa corrente è quella di “sdoganare terrorismo ed Isis” aprendo la strada ad un riconoscimento del “Califfato”. Avendo letto due volte il pezzo di Di Battista mi sono reso conto che ci sono molte forzature in queste reazioni basate spesso su estrapolazioni di frasi dal loro contesto. A proposito del terrorismo, Di Battista dice chiaramente che non lo giustifica “e manifesta apertamente la propria preferenza per le forme di lotta non violente”. Si limita a dire che si può “capire” chi, avendo visto il suo villaggio e la sua famiglia sterminate dai droni americani, poi reagisce facendosi saltare in una metropolitana e facendo così una strage. Quel “capire” non sta per “approvare” (e lui dice chiaramente di non condividere questa scelta), ma è un modo per dire che certe reazioni sono il risultato di una logica di guerra come quella condotta dagli Usa. Si può discurtere questo punto di vista, ma, nel suo lungo (forse troppo lungo) pezzo, questo è un aspetto marginale, un inciso, mentre il sugo politico è altro ed è così sintetizzabile:

a- occorre riconsiderare le ragioni della tempesta che investe il Mo a cominciare dal modo in cui venne spartito l’Impero Ottomano

b- la strategia antiterrorista americana è fallita

c- bisogna arrivare ad una conferenza di pace che metta al tavolo delle trattative Usa, Russia, Alba, Lega Islamica ed i principali paesi dell’area.

d- occorre aprire un confronto con “i terroristi” (l’Isis) capendone la logica politica ed aprendo un confronto con essi.

Sul primo punto bisogna riconoscere che storicamente c’è molto di vero nelle sue affermazioni: in effetti l’Iraq fu una invenzione di Churchill. Il disegno dei nuovi stati venne fatto usando matita e squadra (noi diremmo “squadra e compasso”) modellandoli sulla base dell’esperienza dello stato-nazione europeo. Questo ha prodotto buona parte degli esiti che abbiamo davanti, anche se questa è una spiegazione parziale e poi c’è anche molto altro, compresi gli errori delle leadership dei paesi arabi.

Sul secondo punto è difficile non riconoscere che abbia pienamente ragione: dopo 11 anni di guerra con cataste di morti e un diluvio di dollari spesi, gli americani si trovano con un paese in preda al caos, con un regime fantoccio che, per di più, sembra sull’orlo del colpo di stato e con un esercito che si è squagliato come un ghiacciolo, lasciando le proprie armi ai “terroristi”. Ma, soprattutto, dopo 13 anni di “crociata” contro Al Quaeda, dopo l’uccisione di Bin Laden e di molti altri leader dell’organizzazione, si ritrovano con una “Al Quaeda” più forte di prima che è sul punto di ingoiarsi l’intero Iraq. Bel risultato! E su questo, nessuno dei suoi critici fiata, fosse anche per contestare questa affermazione.

Sul terzo punto è ovvio che una conferenza di pace che risistemi tutta l’area è un punto di passaggio obbligato, perché le varie crisi dell’area (dal conflitto israelo-palestinese al problema curdo, dalla guerra civile siriana alla dittatura militare in Egitto, dal conflitto fra sunniti e sciiti alla situazione iraquena ed alla rivalità fra sauditi ed iraniani ecc.) sono tutte maledettamente collegate fra loro, per cui la soluzione di ogni conflitto presuppone quella dell’altro. Dunque una sistemazione complessiva dell’area è la strada maestra per una pacificazione non precaria di ciascun punto di crisi. Il che, però, non vuol dire che questo sia un risultato facile da perseguire: occorre precisare molto bene quali debbano essere i soggetti da invitare al tavolo delle trattative, come vincere le eventuali resistenze di alcuni di essi, quale debba essere lo spazio delle grandi potenze esterne all’area (come Usa e Russia) e molte altre cose. Ma mi pare che sia una proposta che meriti attenzione ed alla quale l’Italia potrebbe dare un suo contributo.

Perplessità mi suscita l’ultimo punto, il cosiddetto dialogo con i “terroristi”. Non perché io escluda in via di principio dei negoziati politici con “i terroristi”: al contrario, credendo nel realismo politico, sono convinto che in molte situazioni la strada per uscire dal conflitto sia proprio questa. Ed a riprova di questa mia antica convinzione, ripropongo, ai piedi di questo pezzo, un articolo che mi venne richiesto dalla rivista del Sisde “Gnosis” nel 2006 (n° 2), e che metto di seguito in riduzione ed in testo integrale per chi volesse approfondire.

E spero che la sede in cui il pezzo ebbe accoglienza valga a tacitare il cretino di turno che pensasse ad uno “sdoganamento” del terrorismo. Dunque, non è questo il motivo delle mie perplessità, ma due questioni fra loro intrecciate e di squisito carattere politico.

In primo luogo, non sono affatto convinto che l’Isis sia minimamente interessato ad accettare una qualsiasi forma di dialogo. L’Isis, ed occorrerà approfondire seriamente la questione, ha come suo obiettivo la costituzione della “grande potenza” di ispirazione islamica ed, a questo scopo, punta alla leadership dell’intero mondo islamico sunnita o, quantomeno, della più vasta area possibile nel mondo arabo.

Sedersi ad un qualsivoglia tavolo di confronto (qualunque esso sia) non fa parte della sua strategia politica, almeno per ora, ma, al contrario è funzionale ad essa il conflitto più radicale con l’Occidente e chiunque sia assimilabile ad esso (come i cristiani caldei). E qui si inserisce il secondo ostacolo ad un dialogo nelle condizioni presenti: i massacri di curdi, sciiti e cristiani. I numeri non sono –ancora- quelli di un genocidio, ma i massacri ci sono e le “dichiarazioni di intenti” sono tutt’altro che rassicuranti.

Con un soggetto genocidiario non ci si può sedere a discutere in ogni caso, perché il confronto possa avviarsi, prima di tutto, devono cessare i massacri. E questo comporta anche una decisione sul da farsi in presenza di stragi che continuano: un intervento militare americano (dopo quello che è accaduto) servirebbe solo a peggiorare le cose. Un intervento Onu? Ci si può pensare, a condizione che non diventi un intervento americano mascherato. Un intervento iraniano? Possibile ma bisognerebbe vedere le reazioni saudite e turche. Armare i curdi: certo una soluzione che comporta dei rischi, come quelli di rappresaglie dei curdi sui civili sunniti, ma è anche vero che non possiamo assistere inerti ad un massacro reale ed in atto, per evitarne uno possibile futuro.

Di Battista sottolinea come l’Irak sia uno stato inventato che mette insieme tre diverse popolazioni ed auspica che ciascuna, sunniti, curdi e sciiti, si dia un proprio stato. Ma perché questo sia possibile occorre che i curdi ci arrivino vivi e le loro terre non siano occupate.

Insomma se ne può discutere, ma entrando nel merito. Qui invece nessuno delle altre forze politiche si è sentito in obbligo di entrare nel merito delle questioni, ritenendo del tutto sufficiente il solito linciaggio del grillino per una frase o una parola. Il che fa capire come la politica estera sia una cosa troppo seria per farla trattare a questa classe politica.

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.181) 23 agosto 2014 10:11

    Mi sembra che le cose vadano un po’ chiarite. A partire dal fatto che, mi secca ammetterlo, questa volta il grillino non ha tutti i torti. Ma uno sì e Giannulli l’ha già messo in evidenza: l’ISIS non può avere alcun interesse, almeno al momento, di dialogare con chicchessia. Quindi DiBa la sua scemenza l’ha infilata.

    Ripensare però alla spartizione dell’Impero Ottomano mi sembra una po’ bizzarra come ipotesi. Il che non significa del tutto sbagliata. Ma bizzarra, un secolo dopo quegli avvenimenti e un secolo denso come è stato il Novecento.

    Sorvolando su questo punto il resto è abbastanza scontato: l’estremismo dell’Isis è figlio del disastro di Bush figlio, che fu una vendetta (a casaccio e con prove fasulle, toccò a Saddam per via delle storie paterne) per l’attentato delle Twin Towers, che furono una vendetta per la guerra di Bush padre, che fu un’invasione per respingere l’invasione del Kuwait, che fu il modo di Saddam di reclamare il pagamento per la guerra con l’Iran, che fu scatenata per la crisi degli ostaggi, che fu causata dall’appoggio dato dagli USA allo Scià, che fu... qui la memoria comincia a offuscarsi. Ma è indicativo che prima di arrivare alla spartizione dell’impero Ottomano ce ne vuole ancora.
    L’imperialismo americano (e prima anglo-francese) c’è stato, non sono balle. E lo sappiamo tutti. Ma un aspetto mi pare trascurato: i vari colonnelli arabi (Assad, Gheddafi, Hussein e prima ancora Assad padre, Nasser etc.) sono stati dittatorelli che tenevano ben chiuso il coperchio di società composite (spesso figlie della spartizione dell’Impero Ottomano - ci siamo arrivati - o più precisamente della successiva decolonizzazione). Che erano delle pentole a pressione quindi. L’imperialismo americano, ma anche quello sovietico, almeno quello degli ultimi anni, hanno fatto saltare i coperchi e le pentole a pressione sono esplose (come tutte le pentole a pressione se non le fai sfiatare prima). Il problema quindi è sì dell’imperialismo, ma anche della capacità delle società arabe (e islamiche) di darsi istituzioni che non siano solo coperchi sigillati su pentole a pressione messe sul fuoco. Quindi c’è un problema "islam", non solo un problema "imperialismo".

  • Di (---.---.---.181) 23 agosto 2014 13:16

    ...ma anche della incapacità delle società arabe (e islamiche) di darsi istituzioni che non siano solo coperchi sigillati su pentole a pressione messe sul fuoco.

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