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Lo storico deve essere anche giudice? A proposito di una recensione di Corrado Stajano

Lo storico Carlo Greppi, nel suo ultimo lavoro, Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Milano, Feltrinelli, 2016), scrive che la «“zona grigia” non è una categoria da celebrare e deprecare, dal momento che lo storico non deve giudicare, ma provare a raccontare e raccontando a interpretare, rispondere ad alcuni interrogativi, o ammettere - quando è il caso - la sua inadeguatezza».

«È imbarazzante questo giudizio - ha replicato Corrado Stajano nella sua recensione sul Corriere della Sera di giovedì scorso (Salò, più nera che grigia) - se si pensa agli storici che proprio a Torino - Bobbio, Quazza, Venturi - non hanno fatto altro: il diritto/dovere dello storico è proprio quello di giudicare. E la sentenza su quel che fecero i repubblichini è della Storia, non soltanto della giustizia che fu manchevole» (triste protagonista, tra gli altri, del libro di Greppi è infatti la caserma La Marmora di via Asti, a Torino, sede dell’Upi, Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana).

Ci permettiamo allora di ricordare, a conforto della concezione del lavoro dello storico fatta propria da Greppi, il Marc Bloch dell’Apologia della storia o Mestiere di storico dove si legge che «quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è concluso»; che spesso «si dimentica che un giudizio di valore non ha ragion d’essere se non come preparazione a un’azione» (e allo storico, quindi, che in quanto tale studia ma non agisce la formulazione di giudizi di valore non compete); che «un motto, in sintesi, domina e illumina i nostri studi: “comprendere”. Non diciamo che il bravo storico è estraneo alle passioni; ha per lo meno quella». Lo storico francese ha anche ammesso che lo stimolo alla ricerca, ancor «prima del desiderio di conoscenza», origina dal «semplice gusto»: «nessuno, credo, si azzarderebbe più a dire, oggi, con i positivisti di stretta osservanza, che il valore di una ricerca si misura, in tutto e per tutto, dalla sua capacità di servire all’azione […]. Sarebbe infliggere all’umanità una ben strana mutilazione il rifiutarle il diritto di cercare, al di fuori di ogni preoccupazione di benessere, l’appagamento dei suoi appetiti intellettuali. Dovesse anche la storia essere eternamente indifferente all’homo faber politicus, basterebbe, a sua difesa, esser riconosciuta come necessaria al pieno dispiegarsi dell’homo sapiens».

 «Anche indipendentemente da ogni possibilità di applicazione alla condotta pratica», continua Bloch, la storia sarà conoscenza «nella misura in cui essa ci consentirà, invece di una semplice enumerazione, senza nessi e quasi senza limiti, una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità». È vero, ammette ancora Bloch, «un’antica inclinazione, cui si vorrà concedere almeno valore di istinto, ci spinge a richiederle i mezzi per guidare la nostra azione; e dunque, a indignarci contro di essa, […] se, per caso, essa sembri manifestare la sua impotenza a fornirceli». Bene, se d’istinto si tratta, dovere dello storico, in quanto studioso e quindi deontologicamente costretto ad assumere un habitus il più razionale possibile, è quello di resistergli e portare orgogliosamente sugli scudi le indicazioni del fondatore dell’acribia storica, quel Pierre Bayle, che nel suo Dizionario storico e critico del 1697 avvertiva che lo storico «insensibile a tutto il resto, deve essere attento solo agli interessi della verità e deve sacrificare a questa il risentimento di un’ingiuria, il ricordo di un beneficio e l’amore stesso della patria […]. Tutto ciò che lo storico dà all'amore di patria lo toglie agli attributi della storia, e diviene un cattivo storico a misura che si dimostri un buon suddito».

 Rivendichiamo allora la bontà e la validità della concezione della storia come assiologicamente neutra e della lezione weberiana circa l’avalutatività delle scienze storico-sociali (senza voler qui affrontare l’annosa questione se la storia sia una scienza o ‘solo’ una disciplina. A prescindere dal suo status, però, nostra ferma convinzione è che essa possa certamente, fornendo materiali alla libera discussione, contribuire a formare l’opinione pubblica; ciò che invece non può pretendere è che tali materiali possano conferire maggiore oggettività a una determinata costellazione valoriale piuttosto che a un’altra).

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