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Lezioni in inglese nelle università | Per una Babele felice

È il caso di non prendere alla leggera le proteste che da qualche tempo si sollevano contro il fatto che in alcune facoltà scientifiche di università statali italiane si tengano le lezioni in lingua inglese. Invece di ridurre quelle proteste a banali rigurgiti nazionalistici di retroguardia, mi pare opportuno metterne in luce ciò che di sensato e di decisivo emerge da quelle prese di posizione. 

 

Certo, è anche importante la denuncia del residuo di colonialismo che accompagna la pervasività dell’inglese (e in misura minore del francese e dello spagnolo), in tante aree del pianeta e in tanti ambiti della comunicazione e dei saperi. Da questo punto di vista, ha ragione Peter Sloterdijk, quando scrive che oggi “tutti gli studiosi di scienze naturali, i piloti, i diplomatici e gli uomini d’affari sono inglobati come nuove popolazioni artificiali, nell’ineludibile rete anglofona” (Sfere II, Globi). 

È innegabile infatti che, quella della lingua inglese, non può essere vista solo come un’esigenza di praticità e di funzionalità nel tempo della globalizzazione e della connessione permanente, dal momento che quella lingua esercita un vero e proprio potere di controllo politico e culturale. E già questo mi pare un prezzo troppo alto da pagare.

Ma la questione veramente seria e decisiva sta in altri aspetti del problema.

Il rischio più drammatico è che il dominio dell’inglese (o di una lingua sulle altre) diventi un ostacolo o riduca l’evoluzione della capacità di pensare nella propria lingua. Con conseguente impoverimento delle lingue natie e delle diverse lingue del pianeta, alle quali viene gradualmente ma inesorabilmente sottratta l’attitudine ad esprimere e articolare concettualmente questioni complesse, tecniche, astratte, scientifiche, filosofiche. 

Se gli scambi connessi a studi, conferenze, ricerche, comunicazioni ufficiali in ambito scientifico, politico, filosofico, culturale, avvengono solo in inglese perché le lingue locali o nazionali vengono ritenute non comode né pratiche, non si privano di anima le lingue? Non le si mortifica? E questo non è una perdita per la comunità umana nel suo complesso?

Sappiamo che le lingue natie (le lingue “materne”) sono sistemi simbolici dotati di un potenziale innato per esprimere sentimenti e idee profonde. La nostra lingua è quella che ci ha “allattati”, per così dire, e ha generato il primo apparire della nostra coscienza e del nostro pensiero.

Le lingue non sono utensili intercambiabili, né solo un modo per parlare del mondo. Le lingue sono un modo di pensare al mondo. La nostra lingua è il nostro mondo e la nostra “casa”: siamo sicuri di rimanere noi stessi, impoverendola, mortificandola, emarginandola invece di farla crescere con noi? 

La nostra lingua può certo essere arricchita e anche sfidata da altre lingue o sistemi simbolici, ed è bene che lo sia, in un mondo interconnesso.

Ma se si smette di elaborare nella propria lingua anche le questioni più profonde, complesse, e innovative, che fine faranno le lingue? E soprattutto, che fine faranno le persone e le menti che sono state plasmate e strutturate da quelle lingue?

Siamo sicuri che non saremo destinati a trasformarci in nuovi “schiavi”, eterodiretti, se priviamo la lingua, in cui siamo cresciuti, della possibilità di continuare ad articolare categorie, concetti e immagini in ambiti decisivi della nostra vita culturale?

Salvare le lingue quindi, mantenerle attive e produttive in ogni ambito dell’esperienza e della conoscenza, senza sabotarle o umiliarle, senza ridurle al “lavoro manuale” di tutti i giorni, e senza accettare di delegare a lingue “dominanti” il “lavoro intellettuale”! 

Non è in gioco solo il destino delle lingue del mondo, natie, locali o “nazionali”, ma anche la varietà e la diversità del pensiero umano. Si tratta anche qui, soprattutto qui, di garantire una forma di “biodiversità” essenziale per la sopravvivenza e il futuro dell’evoluzione delle società umane.

Ci sarà pure una ragione se gli umani in contesti diversi hanno prodotto (anzi sono stati indotti a produrre) lingue diverse.

Certo, nel corso della storia dell’umanità, si è pensato spesso che la diversità delle lingue fosse un dato strano e innaturale, come è testimoniato anche dal mito di Babele. Al punto da immaginare periodicamente e in forme diverse una specie di “ritorno” all’omoglossia

Ma dobbiamo convenire qui con quanto, anni fa, annotava Gillo Dorfles, quando scriveva che “l’u-topia” di un ritorno all’omoglossia, se mai dovesse realizzarsi, potrebbe accadere solo “in maniera artificiosa, privilegiando un solo idioma, imposto da interessi politici ed economici” (Elogio della disarmonia): il che ovviamente non è neppure auspicabile, se vale quanto si è detto sopra.

Dobbiamo riconoscerlo: nel miraggio dell’omoglossia, nei ripetuti tentativi di imporre una sola “lingua mondiale” c’è il rischio del pensiero unico! Una forma molto subdola di pensiero unico: se è vero che il linguaggio e i simboli del linguaggio plasmano la nostra coscienza e i nostri pensieri. Una sola lingua, o una lingua dominante trascinerebbe con se la tendenza a un solo modo di pensare e categorizzare il mondo.

Il miraggio dell’omoglossia sarebbe, alla fine, solo l’espressione di un desiderio o un bisogno di controllo e di potere, come al tempo dei vari colonialismi, antichi e moderni.

E forse è qui il senso vero del racconto biblico della torre di Babele. Che andrebbe letto altrimenti: non tanto come la gelosia di un Dio, che se è tale non può temere gli uomini; in realtà la “punizione” consisterebbe piuttosto nella messa in mora del delirio di onnipotenza umana, nel rifiuto della pretesa di imporre un “potere culturale”, globalizzante e universale. Quella “punizione” è piuttosto la forzatura a prendere atto che il linguaggio e il pensiero degli uomini non saranno mai omologabili da parte di nessun gruppo umano. 

Il che significa prendere atto dell’ineluttabile diversità e pluralità di uomini, linguaggi e culture.

Un altro modo per dire che è possibile anche una “Babele felice” dove la prassi comune (che l’evoluzione dell’elettronica e dell’informatica rende oggi più agevole!) dovrebbe diventare quella dell’imparare a consultare gli idiomi linguistici gli uni degli altri, facendoli crescere insieme, senza dominio da parte di alcune lingue su altre e senza cancellare culture e modalità di pensiero. 

Potremmo fare nostro il sentire di Gandhi quando diceva: “non voglio che la mia casa sia recintata da ogni lato e le mie finestre murate. Voglio che le culture di tutti i paesi si aggirino attorno a casa mia il più liberamente possibile. Ma mi rifiuto di lasciarmi travolgere da alcune di esse”.

 

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