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Lettera a Salvatore, morto di lavoro

Salvatore Caliano, 21 anni, è morto martedì scorso dopo un volo di 4 piani da un palazzo nel centro storico di Napoli, dove stava lavorando per pulire il lucernario da cui è precipitato. Per svolgere questa mansione avrebbe ricevuto 35 euro da un inquilino.

Caro Salvatore, di te nessuno se ne fregherà nulla. Passato lo shock mediatico, tornerai nel limbo a cui il destino ha deciso di collocarti, quello delle morti bianche, che tanta strage fanno in Italia. Probabilmente rimarrai nella memoria degli abitanti di Forcella, che come tutti i quartieri popolari di Napoli si tatua sulla pelle i nomi dei propri morti e ne serba il ricordo in qualche cappella votiva. Forse qualche consigliere chiederà di intitolarti uno slargo, una piazzetta dove crescono quattro alberelli sfrondati. Partirà la solita macchina giuridica con i suoi rituali fatti di avvisi di garanzia, codicilli e processi per accertare le responsabilità penali di chi ti ha offerto quei 35 euro per pulire i vetri di un lucernario fradicio. E forse emergeranno le solite esasperanti liti condominiali che hanno impedito di mettere in sicurezza un edificio consumato dal tempo.

Eppure nel rivedere la tua tragedia non si riesce a non immaginare per un attimo la città brulicante di lavori precari e a nero, sottopagati e spesso pericolosi. La gran parte dell'economia del sottoproletariato cittadino si fonda sul reddito di garzoni, camerieri, manovali, estetiste. Lavori che servono per sopravvivere, lavori che servono per far sopravvivere tutti coloro che si fregiano di aver raggiunto il privilegio di poter beneficiare delle prestazioni d'opera altrui. Qualcuno ieri ha provato a picchettare l'Ispettorato del Lavoro, a ricordare che un ente per il rispetto delle norme per la sicurezza sul lavoro esiste effettivamente, un palazzone vicino al porto da radere al suolo per manifesta inutilità.

A nulla varranno le battaglie politiche che pure qualcuno, nel chiuso della sua ostinazione, vorrebbe portare avanti. Questione di classe. Cercare le soluzioni nelle istituzioni è mossa vana, così come lo è agitare venti di pseudo-rivoluzioni dal basso che hanno imboccato la solita deriva da "Miseria e Nobiltà", da Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, dove i ricchi vivono in un mondo fuori dal mondo e le famiglie miserabili si scannano tra di loro, dove l'unico riscatto sociale possibile è rappresentato dal matrimonio tra un ragazzotto dell'alta borghesia e la figlia di Pasquale 'o salassatore. Ieri come oggi. In un contesto in cui il cane morde lo stracciato e l'interclassismo viene posto come strada obbligata da percorrere, mentre da più parti si cerca in maniera quasi diabolica di rendere appetibile un futuro che vuole stabilizzare questo presente fatto di nuovi lavori che vengono creati dal nulla in maniera inversamente proporzionale al reddito che essi producono, la battaglia è già persa in partenza.

Salvatore non è un inizio e non sarà una fine. E' semplicemente l'ennesima annotazione sulla lista delle morti sul lavoro, in attesa che tocchi al prossimo. Un bollettino di guerra sul quale si aggiungono tanti altri drammi quotidiani delle masse popolari più misere. Davanti a questa constatazione mi chiedo se serva ancora rilasciare interviste o picchettare luoghi privi di qualsivoglia significato. I luoghi sono altri e solo con il linguaggio universale del lavoro è possibile unire ciò che è molto più facile dividere, ed immaginare un minimo di svolta, una solidarietà di classe ormai svanita. Forse così potremmo rendere onore alla vita di Salvatore e a chi come lui è morto per lavorare.

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