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“Le potenze del capitalismo politico”: economia e sicurezza nazionale nella sfida Usa-Cina

L’Osservatorio Globalizzazione torna a conversare con Alessandro Aresu, analista di “Limes” e saggista, confrontandosi con lui sulla sua più recente pubblicazione, “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”, edito da “La Nave di Teseo” e incentrato sullo studio delle dinamiche cruciali per la determinazione dei rapporti di forza nell’era contemporanea.

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 Tra rivalità tecnologica, uso “geopolitico” del diritto, corsa agli investimenti e sfida commerciale Washington e Pechino sono ora le uniche potenze in grado di governare gli strumenti del “capitalismo politico”, che incardina le priorità dell’economia nell’agenda della sicurezza nazionale delle due grandi potenze.

  • Nel suo saggio lei definisce il capitalismo politico “la compenetrazione di economia e politica in un tutt’uno organico” in cui, inevitabilmente, sono le priorità e i ritmi della seconda a dettare i tempi. Stati Uniti e Cina sono i due attori che hanno la capacità di portare avanti un vero e proprio capitalismo politico: come si somigliano e come divergono, nei sommi capi, i loro approcci?

In Cina esiste il Partito Comunista, negli Stati Uniti c’è l’apparato militare e di sicurezza. Nel primo caso il “titolare” del capitalismo politico è un soggetto di 90 milioni di membri, che influenza in modo decisivo tutta la società. Nel secondo caso, non siamo in un sistema autoritario perché ci sono libertà politiche, ma alcune decisioni cruciali sono comunque prese dall’apparato militare, generando un allargamento del dominio della sicurezza nazionale rispetto al funzionamento dei mercati. Un’altra formula del “tutt’uno organico” si ha nelle modalità di controllo e nella pervasività di talune aziende digitali nelle nostre vite, di cui si potrebbe parlare a lungo. 

  • Sotto il profilo ideologico, come si sovrappone il “capitalismo politico” con le due ideologie guida dei sistemi economici delle due potenze, il socialismo con caratteristiche cinesi e il neoliberismo di stampo statunitense?

Beh, ho scritto il mio libro, raccogliendo una certa documentazione, anche perché secondo me parlare di due capitalismi politici è più utile che utilizzare quelle formule: socialismo con caratteristiche cinesi e neoliberismo sono formule meno utili per capire il mondo. Cerchiamo di andare più in profondità. 

Mike Pompeo dice: “Non esistono le aziende private in Cina”. Le aziende private invece esistono. Il Partito Comunista Cinese non sa fare tutto. Per la crescita cinese i privati sono essenziali, in termini quantitativi e qualitativi. Lo mostra Milanovic nel suo ultimo libro “Capitalism, Alone”, ma il tema era già ben spiegato in uno splendido articolo di Mark Wu sul commercio internazionale, che richiamo nel mio libro. Ci sono ovviamente migliaia di società dove siedono i manager nominati dal Partito, poi ci sono anche società private che, dati alla mano, contribuiscono maggiormente alla crescita del Celeste Impero. Attenzione, non è che il Partito si alza la mattina e inventa TikTok: quella geniale invenzione è di un privato, Zhang Yiming. Ora, cos’è che quelle società non possono fare? Primo: non possono andare mai politicamente contro le decisioni del Partito. Secondo: non possono mai dire di no alle richieste del Partito, che decide che cos’è la “sicurezza nazionale”. Su queste linee rosse, Pompeo di fatto ha ragione. Ma se riduciamo tutto a “non esistono i privati”, secondo me costruiamo una caricatura, non capiamo quel sistema.

Negli Stati Uniti il commercio e la tecnologia vengono usati per obiettivi geopolitici, all’interno e nell’influenza con gli alleati. Gli investimenti esteri nel Paese, in una marea di settori, devono essere autorizzati dal governo, e per la decisione conta moltissimo il passaporto degli investitori (ora conta soprattutto se è cinese). Non siamo quindi in presenza di fatti tecnici o di mercato. Pensiamo ai controlli su importazioni ed esportazioni, alle sanzioni commerciali e alle sanzioni finanziarie, che sono lo strumento di una “guerra del Tesoro”, descritta da chi ci ha lavorato, come Juan Zarate. Si può sostenere con onestà intellettuale che queste cose, che io spiego nel dettaglio e che sono importantissime nel mondo in cui viviamo, siano “neoliberiste”? No, non mi pare proprio. Poi, certo, negli Stati Uniti ci sono molti altri fenomeni: anche se il sistema è pluralista, i poveri non stanno bene, gli ingenti soldi pubblici nella sanità non aiutano il popolo, molti ricchi (dai casinò ai big tecnologici) aumentano le loro ricchezze e agiscono per “comprare” la politica. Questo lo sanno tutti, ma io ho elaborato una teoria per mettere insieme in modo coerente alcune questioni meno note e molto importanti per capire il nostro tempo. E sono questioni per cui il termine “neoliberismo” serve a poco. 

  • La tecnologia è oggi il terreno di scontro più ambito tra le due grandi potenze del capitalismo politico. In che modo lo “Stato innovatore” si inserisce nel filone del capitalismo politico?

Il discorso sarebbe molto lungo, bisognerebbe analizzare nel concreto le dinamiche dell’innovazione negli Stati Uniti oppure, in riferimento al rapporto tra Stato e mercato in Italia, vedere quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato, visto che – solo per fare un esempio – la storia di Fincantieri e Alitalia negli ultimi quindici anni è completamente diversa. Il rapporto tra Stato e mercato è un tema molto importante, io per esempio ho cercato di affrontarlo attraverso casi studi delle imprese che ho studiato di più (tra cui Telecom), mentre trovo improprio affrontarlo in modo generico, attraverso stereotipi. Anche se è scontato che ci siano sempre semplificazioni e caricature nella ricezione comunicativa, mica il mondo funziona con interviste lunghe come quella che sto facendo qui, dove scrivo quello che voglio prendendo una marea di battute.

Anche all’espressione “Stato innovatore” preferisco “capitalismo politico”, perché restituisce meglio quei fenomeni più ampi che ho descritto sopra. Magari lo Stato non ha veramente “innovato” in un certo campo o l’innovazione si è fermata a un certo punto, però la decisione della sicurezza nazionale sull’economia si applica lo stesso.

Mariana Mazzucato, che nel titolo originale del suo libro come sappiamo parla di entrepreneurial State, ha avuto il merito di portare la riflessione sul rapporto Stato/mercato in un dibattito ampio e diffuso, e considero il suo successo un dato positivo sia quando le sue proposte specifiche mi paiono intelligenti (la critica dell’outsourcing dei governi verso le società di consulenza) sia quando mi sembrano invece tutt’altro che praticabili (la bislacca idea di una “grande alleanza” tra attori industriali italiani e cinesi). Molti temi importanti sono espressi in un libro ricco di spunti che Mariana Mazzucato richiama più volte, “State of Innovation: The U.S. Government’s Role in Technology Development” del 2011. Per la mia teoria, vista la centralità di difesa e sicurezza, sono utili anche le vecchie opere di Galbraith su tecnocrazia industriale e apparato militare, tema su cui ha riflettuto anche il nostro Giuseppe Guarino, in un libro che ho recentemente recuperato, “I soldi della guerra”. Una delle più belle ironie della storia delle idee è che senza saperlo siamo sempre “schiavi” di qualche libro o dibattito precedente e dimenticato, e in questo caso anche di volumi e interviste di Guarino di vent’anni fa nei giornali diretti da Andreotti. 

Con la mia ricerca, tento di ragionare sugli aspetti politici della tecnologia, come del resto ho fatto su Limes, su Repubblica e altrove, sulle singole aziende digitali e sugli oggetti, dalle fabbriche di semiconduttori ai cavi sottomarini, insomma sulla dimensione propriamente “fisica” della tecnologia, su cui prima o poi scriverò un libro.

Per andare più in profondità, è importante capire anche che gli investimenti “innovativi” non sono neutri né nello scenario internazionale né per la comprensione e la definizione della sicurezza nazionale.

Prendiamo le trasformazioni della “sostenibilità”, “l’economia verde”. In sintesi: si possono investire decine di miliardi in “energie verdi” ma se poi i pannelli solari li fa solo qualcun altro, se gli standard sono stabiliti dagli altri, se la capacità dei salti tecnologici è esercitata solo degli altri, tu sei tecnicamente un cliente, non un soggetto. Poi pure io voglio vivere dove l’aria è pulita e non voglio che si inabissino le spiagge della Sardegna, ma non parlo di “sostenibilità” senza considerare i rapporti di potere, l’influenza, la sovranità tecnologica, temi su cui mi pare che il ritardo della sensibilità pubblica e nelle aziende sia colossale. 

  •  Dai microchip ai cavi sottomarini, per usare una licenza poetica, l’essenziale, cioè l’oggetto del contendere, è invisibile agli occhi. Come vede oggi le prospettive della partita strategica per la tecnologia tra Washington e Pechino?

Nei microchip gli Stati Uniti sono per ora in netto vantaggio. L’errore cinese, che ha compreso bene l’ex ministro Lou Jiwei, come ho ricordato nel mio libro, è stato paradossalmente il tanto celebrato Piano Made in China 2025. Un’operazione che, al di là dei suoi contenuti concreti, ha fatto troppo rumore e ha fatto “svegliare” gli Stati Uniti.

Un errore grossolano, per il Paese di Deng Xiaoping che ora ha visto emergere anche un’élite della politica estera e della comunicazione che ha maggiore violenza verbale, i cosiddetti “lupi guerrieri”. È un altro tema che introduco in “Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina”. 

  • La continuità degli apparati di sicurezza nazionale e di intelligence custodisce gli interessi del capitalismo politico? Qual è il grado di pervasività dell’intervento in Cina e negli Usa?

Devono promuovere, presidiare e difendere le cose giuste, nel momento giusto. Ognuno con le sue diverse responsabilità. Poi anche questi apparati possono commettere errori. Mica sono perfetti. Anche ad essi, come a tutti noi, si applicano le leggi della stupidità di Carlo Cipolla!

  • Nel suo saggio lei spiega con approfondito dettaglio i motivi per cui l’Europa, dalla retrocessione in secondo piano nel dopoguerra, è retrocessa da soggetto a oggetto della partita per l’egemonia globale. La “sfida americana” di cui parlava il giornalista francese Jean-Jacques Servan-Schreiber e la marginalizzazione economica dell’Europa per la debolezza tecnologica, è oggi sfida americana e cinese. L’Europa ha margine per riprendere terreno?

In termini di potenza, non mi pare proprio. In termini industriali, dipende dai settori. La possibilità che i Paesi europei creino aziende come Google o Amazon è vicina a zero. La possibilità che le aziende automobilistiche europee siano protagoniste dell’elettrico è scarsa. È diverso, per esempio, il discorso delle scienze della vita, dove ci sono importanti capacità europee e su cui la crisi in atto può essere un acceleratore, anche attraverso operazioni su scala continentale dei vari fondi sull’innovazione. Come scrivo alla fine del mio libro, resta sempre la possibilità di un’integrazione tra mercati statunitensi ed europei, che ha un significato geopolitico, con gli Stati Uniti in un ruolo più forte, anche perché sono un’entità politica più definita rispetto a “l’Europa”. Una prospettiva vista dallo stesso Servan-Schreiber più di cinquant’anni fa. 

  • Dalla Francia in settori come la Difesa e l’aerospazio o la finanza alla Turchia in aree come il Mediterraneo orientale, passando per l’industria israeliana della sicurezza nazionale, vi sono governi che in singoli settori sembrano esser capaci di applicare, in parte, le dottrine del capitalismo politico. La corsa globale alla protezione delle economie nazionali in atto incentiverà questa tendenza?

Sì. Ancor più nella pandemia, ognuno rafforza il proprio capitalismo politico, in modo più o meno consapevole, vedremo con quali risultati. C’è anche una “isteria” della sicurezza nazionale e della politicizzazione. Il capitalismo politico francese nel mio libro ha un certo spazio, perché nell’ambito europeo la Francia ha sempre presidiato quest’idea, perché c’è la consapevolezza della guerra economica. Sono cose che loro hanno sempre studiato e fatto e che tendono a ripetere, con qualche adattamento retorico ma di certo non sempre con efficacia. 

  • Come deve vedere l’Italia la partita globale del capitalismo politico? Consci della nostra ridotta soggettività geopolitica e strategica, come possiamo massimizzare il nostro potere negoziale?

Noi non dominiamo il mondo né lo domineremo. Anche definirci arena “decisiva” della lotta tra Stati Uniti e Cina non mi convince troppo, almeno come premessa per l’azione. È chiaro che siamo una delle arene, ma non dobbiamo esagerare. Possiamo darci compiti più limitati e intanto pensare ad essi. Per esempio, dobbiamo pensare a investire di più in istruzione e ricerca, a pagare di più i nostri ricercatori. A salvaguardare parti importanti del nostro tessuto industriale, connettendo risparmio e investimento. E a mantenere nel nostro Paese la libertà di espressione, una cosa che non c’entra nulla col capitalismo politico e con la sua logica di potenza ma per cui, almeno secondo me, vale la pena vivere.

Tutte le interviste dell’Osservatorio Globalizzazione.

Foto di mohamed Hassan da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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