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 Home page > Attualità > Economia > Ladri di mestiere. Prove di tolleranza in un bar di provincia

Ladri di mestiere. Prove di tolleranza in un bar di provincia

Lo fisso agitato, sperando che non interrompa la quiete del mio caffè quotidiano. Sto parlando di lui, l’italiano medio. È seduto al tavolo vicino, con indosso una Lacoste verde intolleranza, guarda inebetito, sul LCD del bar, un Tg di un canale nazionale. In onda c’è un servizio inquietante che urla allarmato di acciaierie dimenticate, di lavoratori in rivolta, ministri silenti, città perdute; snocciola numeri, ferisce gli animi con taglienti statistiche ed imbarazzanti rapporti.

Alla fine lo fa, si volta verso di me, unico altro avventore, e dopo avermi assicurato con serietà affettata che no, lui non è un razzista, finalmente me lo dice: < Colpa loro. Sono gli immigrati che ci rubano il lavoro >. Utilizza proprio quel verbo, rubare: sottrarre indebitamente qualcosa a qualcuno cui appartiene – presumibilmente appartenenza che nel nostro contesto dovrebbe derivare da un diritto per nascita. A questo punto vorrei fargli presente quello che persone più informate di noi, come gli economisti della Banca d’Italia, hanno riscontrato nelle loro ricerche: ovvero che quel che dice corrisponde ad una panzana.

Starei lì lì per porgli una semplice e sibillina domanda a conferma di quanto affermato dagli economisti: ”quante, tra le amiche di tua moglie, passano le proprie giornate a bussare di porta in porta per cercare un impiego come badante?” o magari “conosci qualcuno degli amici di tuo figlio che nelle lunghe pause universitarie, tra una lamentela per un esame non passato e uno sbuffo per un altro ancora da dare, si dichiari pronto ad abbandonare tutto per trascorre 16 ore al giorno alla guida di un Tir?”. Lascio perdere e decido di dar credito alla sua apodittica assunzione. Gli pongo però una questione che dà il via al dibattito. Se è vero che ci “rubano” alcune nostre occupazioni, ciò vuole dire che in Italia esiste un’offerta lavorativa pronta ad assumerli. < Ovvio>. Bene. Allora, se non vogliamo asserire che gli imprenditori e le famiglie nostrane abbiano una naturale preferenza antropologica per l’estraneo, dobbiamo andare a cercare i motivi di questa scelta in un altro elemento, facile facile da trovare. < E certo: li pagano di meno!>. Ottimo mio omologato amico!

Converrai con me, però, che nessuno si auto-decurta lo stipendio per masochismo. Evidentemente lo faranno per venire incontro ad un’offerta salariale al ribasso. <quindi?>. Quindi, forse sarebbe opportuno capire perché un imprenditore (o una famiglia italiana) deve mettere in moto questo gioco al ribasso. Le ipotesi, a guardar bene, sono solo due: o gli italiani, cosa non escludibile a priori, sono dei rapaci votati alla massimizzazione estrema del profitto sino ad abdicare il proprio patriottismo e la propria moralità per sotto-stipendiare dei disperati, oppure le condizioni economiche del nostro paese sono tali per cui riusciamo a rimanere competitivi (o meglio: a sopravvivere) solo abbassando gli stipendi sino ad un livello-soglia accettabile solo dalla popolazione immigrata. In questo secondo caso molta della responsabilità la possiede il governo (ma dato che si tratta di una situazione inveterata e di remota origine, direi i governi) che in questi decenni non ha fatto nulla per ridurre la vorace pressione fiscale divoratrice di redditi, ed è rimasto inerte ed immobile di fronte al declino economico che stava, e sta, vivendo il nostro paese.

Qualsiasi sia delle due la risposta al nostro dilemma, l’immigrato risulta essere solo l’ultimo meccanismo di una macchina che trova l’origine del suo movimento in fattori molto più complessi e di nostra responsabilità. Tra l’altro, un meccanismo ben oliato che, anzi, permette alla “macchina economica Italia” di muoversi ancora nonostante tutto. L’immigrato, clandestino o meno, comunitario o non, diventa, come sempre nella storia, il facile bersaglio di proclami demagogici e populisti di una classe dirigente che sta repentinamente perdendo consensi. Il proverbiale dito che si fissa mentre indica la luna. L’italiano medio mi guarda, anzi fissa un punto imprecisato sul mio volto, e scuote la testa sconsolato. < Sono comunque troppi e non si sanno integrare>. Si gira e torna fissare la tv.

Prima che io possa proferire parola, “il medio” torna a voltarsi e riprende il discorso lasciato in sospeso: <E comunque sia, portano un sacco di delinquenza. Non li guardi i giornali?>. Sì e alle volte mi ritrovo anche a leggerli. Non posso fare a meno però di presentargli quella che è una serissima ricerca fatta da Tim Wadsworth, docente di Sociologia all'Università del Colorado, nel quale viene dimostrato che il rapporto tra immigrazione e criminalità è inverso, contrariamente a quel che si crede. La cosa è in effetti ovvia, se si pensa che un uomo spinto dalla miseria ad abbandonare la propria casa e le propria famiglia per assicurare a quest’ultima un reddito regolare ed un futuro dignitoso, trasportandosi in un mondo distante migliaia di km reali e culturali, lo farà buttandosi a capofitto nel lavoro (da schiavo) piuttosto che spendendo il proprio tempo e la propria unica possibilità commettendo ca**ate. Almeno nella maggior parte dei casi.


Di nuovo mi viene incontro la Banca d’Italia con una ricerca intesa a verificare proprio ciò. Anche i dati relativi alla mia città di adozione (pure io una sorta di immigrato?), Roma, mostrano la stessa evidenza : ”I dati del Ministero dell’Interno - Dipartimento Polizia di Stato mostrano, infatti, che nel 2008 la criminalità degli stranieri è diminuita del 7,6% nel Lazio e del 15,3% in provincia di Roma, nonostante la popolazione straniera residente sia aumentata in entrambi i contesti”. (Fonte: Osservatorio Romano sulle Immigrazioni, VI rapporto).

Ammettendo, per assurdo, la realtà dell’affermazione del mio amico, bisognerebbe nuovamente porsi il problema di ricercare un’origine al male a cui facciamo riferimento. Se assistiamo ad un’importazione di immani proporzioni di criminalità da fuori i confini questo avviene perché il mondo che ci circonda è popolato da esseri dediti per natura al male e capaci solo, per mancanza di qualsivoglia abilità, a delinquere, o piuttosto l’Italia sta diventando una sorta di far west legale dove, sia autoctoni che immigrati possono compiere malefatte di ogni genere senza incontrare la giusta opposizione del sistema giuridico e normativo? L’alto tasso di delinquenza del nostro paese, unito al raffronto con le situazioni di paesi molto più aperti all’accoglienza e con una percentuale di immigrazione sulla popolazione più alta, quali Svezia, Germania Gran Bretagna, che non si trovano a dover far fronte alle stesse dimensioni di tale piaga, farebbero propendere per la seconda ipotesi.

Cerco di cogliere l’assist fornitomi dal suo silenzio (vocale e di pensiero) per stuzzicarlo con l’argomento morale, a cui dovrebbe essere sensibile uno dei tanti “italiani brava gente” come recita la smemorata espressione: non pensi poi che sia un crimine alzare le cataratte di fronte ad una massa di disperati pronti a rischiare la propria vita, attraversando mari di acqua, mari di sabbia e mari di trafficanti, pur di trovare la speranza? Quanti tra i rimpatriati sono esuli che fuggono da guerre civili e persecuzioni politiche, etniche o religiose? < appunto. Sei tu che col tuo bel pensare ipocrita li fai venire fino a qui, [io? Li faccio venire? Ma che dici? Magari li telefono di nascosto] facendoli affrontare chissà quali rischi, giusto per dar ragione al tuo bel ideale [sic!]. Perché, invece non gli aiutiamo nel loro paese?>.

Ecco. Questa è un’altra di quelle espressioni che mi è difficile comprendere. Che vuole dire aiutare? In che modo? Chi? Forse il mio ben intenzionato amico fa riferimento a tutte quelle politiche di assistenza ufficiale ai paesi in via di sviluppo (i cosiddetti ODA) che tante belle intenzioni hanno persino nel nome. È un peccato che il nostro virtuosissimo e generoso paese sia agli ultimi posti nella classifica dei paesi che combattono la povertà attraverso i finanziamenti allo sviluppo. Se il governo passato aveva fatto male, quello attuale, nonostante le promesse, ha poggiato una pietra tombale sul settore dell’assistenza allo sviluppo. Sarebbe utile fargli notare, inoltre, che se molti paesi del cosiddetto “terzo mondo” riescono a tirare vanti è perché le economie famigliari degli stessi sono sostenute attraverso le rimesse degli immigrati. Un flusso di una portata così ampia da essere l’unico ad aver resistito persino alla recente crisi finanziaria, mostrando addirittura tassi di crescita. Ma scorro, senza colpo ferire, fino al passaggio successivo: l’unico modo nel quale i paesi di origine degli immigrati possano crescere (se questo è visto come un bene) fino a raggiungere il nostro livello, è quello che “si aiutino da soli” abbracciando l’economia di mercato e sviluppando da se le proprie istituzioni. In questo gli aiuti dall’estero hanno sempre fallito e, per loro natura, sempre falliranno. Serve che lo slancio se lo diano da soli aprendo le loro porte al mercato internazionale (anche dei lavoratori) come stanno già facendo Cina, India, Brasile e quant’altri. Ma qui ricadono gli strali dell’italiano medio, che ora fa il verso a sedicenti esperti di economia e società quali il nostro immobile Ministro delle Finanze Giulio “Tre Picchi” <i cinesi ci sommergeranno, ci faranno chiudere le fabbriche, ci conquisteranno…> Ok.

Vorrei continuare ma sento un amaro rigurgito salirmi dall’esofago. Non so se sia il caffè che si ribella e cerca d rifuggire dalla conversazione o sia la rabbia di parlare senza comunicare. Per avere qualche delucidazione sulla sua ultima affermazione lo invito a leggere “Tremonti: istruzioni per il disuso” del collettivo Noisefromamerika. Lo saluto ed esco dal bar. Mi accorgo che è ora di pranzo. E decido di dirigermi al kebabbaro lì vicino. Mi giro e mi accorgo che l’italiano medio ha avuto la mia stesa idea.

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