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La politica economica di Bettino Craxi tra rigore e sviluppo

Pare non essere ancora emerso da questi ultimi mesi di acceso dibattito su Craxi, un aspetto fondamentale di quegli anni di Governo che lo videro Presidente del Consiglio, ovvero la condotta della sua politica economica. Offriamo qui uno spaccato di storia che possa aiutarci a riflettere meglio su quel periodo e a cogliere ispirazione per il futuro.

 

Ripercorrere gli anni dal 1983 al 1987, ci porta a raccontare la costruzione di ciò che viene definito da molti un capolavoro della politica economica italiana. Il nostro Paese, in soli quattro anni, riuscì a passare agilmente da una situazione di disastro ereditato, a diventare una delle prime potenze industriali del mondo. In quegli anni l’Italia entrò a far parte del gruppo G7, grazie alla crescente forza economica che le permise di imporsi sullo scenario internazionale. 

Era il giugno del 1983, quando l’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, convocò Bettino Craxi per conferirgli l’incarico di formare il Governo. Era la prima volta che un socialista era chiamato a dirigere il Paese. La situazione politica italiana era in sofferenza e quella economica versava in condizioni difficili. Tra i socialisti, la disponibilità della DC a permettere che la guida del Governo fosse affidata ad un socialista, venne vista con sospetto. 

Lo scenario in cui si affacciò il nuovo leader del Psi era quello di una seria stagnazione, stagnazione che durava da tre anni. Il PIL era inferiore ai livelli del 1980, l’occupazione in calo, gli investimenti in caduta libera, il potere d’acquisto dei salari in permanente difficoltà, nonostante il loro elevato incremento eroso da un’inflazione intorno al 20%. Lo spread superava i 1100 punti base. I conti con l’estero negativi, così come quelli interni. 

Nelle sezioni si respirava grande aria di scetticismo. “Il Governo farà fino in fondo quello che sarà necessario fare, ma ogni partito e gruppo sociale, dovrà assumersi la propria responsabilità.” Disse Bettino Craxi nel suo discorso di insediamento. “La strada del risanamento finanziario è una strada obbligata. Essa sarà percorsa con tenacia”. “Occorre una politica dei redditi, per abbattere l’inflazione e ridurre il differenziale con gli altri paesi”. 

Fu così che cominciò la politica di rigore del Governo Craxi. Occorreva una vasta operazione nella finanza pubblica come nel settore reale dell’economia. Subito la spesa sociale venne sottoposta ad un’ampia revisione. Applicando la dottrina De Michelis, le prestazioni cominciarono ad essere corrisposte per fasce di reddito (i giornali definirono l’operazione “L’Italia in fasce”): ai redditi bassi le prestazioni venivano assegnate nella totalità, alle fasce intermedie venivano ridotte e ai redditi medio-alti, le prestazioni venivano corrisposte parzialmente o del tutto annullate. Così si fece per la scala mobile dei pubblici dipendenti e pensioni, gli assegni familiari, l’adeguamento delle pensioni al minimo.

L’altro intervento riguardò il settore reale, più specificatamente diretto a frenare l’inflazione dal lato dei costi e dei prezzi. Venne stipulato con il Sindacato e le altre parti sociali, quello che viene ricordato come l’Accordo di San Valentino del 14 febbraio 1984: con quell’accordo venne sospesa l’erogazione di tre punti di scala mobile, nel quadro di un’ampia operazione di contrasto all’aumento dei prezzi, in concomitanza al blocco dei prezzi amministrati, quello dell’equo canone e la stretta sorveglianza dei prezzi privati. Sul mercato del lavoro vennero introdotte numerose novità, come i contratti di solidarietà, il tempo parziale, i contratti di formazione e di lavoro, assunzioni per chiamata diretta.

L’operare della scala mobile a punto unico, secondo i socialisti, riproduceva e amplificava l’inflazione e schiacciava i salari, costringendo i datori di lavoro a riadeguare il compenso dei lavoratori più qualificati. Il risultato che si produceva era la crescita elevata e insostenibile del costo del lavoro, con la perdita di competitività dei nostri prodotti.

In questo contesto entrava in azione la Banca d’Italia, in due modi: svalutando la moneta e stringendo il credito. Si verificava di conseguenza un nuovo aumento dei prezzi inutilmente ostacolato dal controllo sulla moneta. Le imprese, strette dall’aumento continuo dei costi del lavoro e il credito sempre più scarso, scaricavano manodopera, ricorrendo massicciamente alla cassa integrazione. Si otteneva così una finanza pubblica fuori controllo, per l’operare dell’elevata indicizzazione e dei costi degli ammortizzatori sociali, a cominciare dall’esplosione della stessa cassa integrazione. 

Il punto unico esisteva già da tempo nel settore pubblico e aveva sicuramente creato seri problemi. Il Sindacato nel 1975, in seguito all’esplosivo aumento del prezzo del petrolio, con la cosiddetta tassa dello sceicco, ottenne dal padronato, rappresentato dal Presidente della Confindustria, l’Avv. Gianni Agnelli, che la contingenza fosse erogata in cifra uguale per tutti i lavoratori, così come avveniva nel settore pubblico, nell’intento di “proteggere il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati”. Mentre l’inflazione erodeva i salari per cifre diverse a seconda dei livelli retributivi, il rimborso restava uguale per tutti, con le catastrofiche conseguenze denunciate da grandi economisti come Sylos Labini e Tarantelli. Quest’ultimo, giovane studioso e consulente della Cisl, pagò con la vita il suo appassionato impegno a favore dei lavoratori e vene ucciso dalle B.R.

In quegli anni, il costo del servizio del debito era stato fortemente spinto a livelli elevati, a causa, come molti sostengono, del divorzio tra Tesoro e la Banca d’Italia. 

La liberalizzazione dei capitali e l’affidamento al mercato della fissazione dei tassi di interesse dei titoli del debito pubblico, creò infatti molte difficoltà aggiuntive al contenimento della spesa. Fu lo stesso Ministro Andreatta -che nel 1981 aveva promosso il “divorzio”-, a riconoscere queste difficoltà in un suo scritto. All’epoca alcuni ritenevano che fosse preferibile dilazionare e procedere per gradi, rimandando a periodi economicamente più favorevoli. Il Ministro Andreatta, d’intesa con il Governatore Ciampi chiuse l’accordo in fretta, temendo probabilmente che un eventuale rinvio avrebbe potuto compromettere per sempre l’operazione che riteneva indispensabile. 

Nei due anni successivi la spesa corrente crebbe del 33% nel 1981, del 23%. Nel quadriennio (1978-83), la spesa complessiva era triplicata e aumentata di ben 8 punti in percentuale del PIL. Fu così che un accordo tra il Governo, le parti sociali e Banca d’Italia, con i favorevoli andamenti internazionali, produssero risultati positivi su tutti i settori dell’economia grazie alla politica di rigore craxiana. Nonostante il quadro complesso in cui il Governo andò ad inserirsi, le cifre volsero in positivo. 

All’estero si cominciava a guardare con crescente interesse a quello che venne definito “nuovo miracolo italiano”. I report delle società di rating attribuirono al nostro Paese la tripla A. (Moody’s nel 1986 e Standard & Poor’s nel 1987). L’Italia superò il Regno Unito e venne accettata tra i G7, l’olimpo delle maggiori potenze industriali, a cui l’Italia, fino a quel momento, era stata a malapena ammessa a cena.

I miglioramenti furono notevoli, già nel corso del 1984, su tutti gli indicatori economici. La punta più evidente riguardò l’industria, dove il costo del lavoro per unità di prodotto crollò letteralmente, dal 16,5% al 5,5%. Le ore di sciopero subirono un tracollo, gli investimenti salirono del 13,3%. I salari reali crebbero, al contrario di quanto avevano sostenuto coloro che avevano osteggiato il taglio della scala mobile. L’inflazione, già ad ottobre dello stesso anno, scese sotto il 10%, il differenziale con gli altri paesi europei calò di 2 punti. La finanza pubblica cominciò a dare chiarissimi segnali di miglioramento. La spesa pubblica, ad esempio, che nel 1983 era aumentata del 23,4%, nel 1984 dimezzerà il suo incremento, superando di poco l’11%. 

Molti esperti sostengono che quella di Craxi fu fortuna, una congiuntura positiva data la situazione economica esterna favorevole. Necessario infatti riportare le parole dell’allora Governatore Ciampi, che così si espresse nei confronti dell’operato del Governo Craxi: “Nel 1984 il contenimento dei costi è derivato dalle componenti interne, quelle estere hanno operato in senso opposto per il forte rincaro del dollaro”. 

Negli anni precedenti la crescita era irretita effettivamente da due vincoli: l’inflazione e i conti esterni. Ogni tentativo di accelerazione della crescita era in netto peggioramento sui conti esteri e spingeva su i prezzi, attraverso l’aumento delle importazioni. Durante la reggenza Craxi la ripresa avvenne con un’inflazione in calo e un miglioramento degli stessi conti esterni. 

Purtroppo il grande successo di Craxi al referendum, che tutti avevano dato per sconfitto, mise a quel punto la DC sulle difensive. Il Segretario De Mita prese eventualmente in seria considerazione il probabile rafforzamento elettorale dei socialisti. 

La sconfitta referendaria della CGIL aveva provocato un radicale cambiamento di linea, considerato che la vittoria del NO trovò voti decisivi tra gli operai delle grandi industrie del nord. Si tentò così di rilanciare la politica di unità sindacale e di riaprire il dialogo con il Governo per un accordo di scambio, tra la riduzione delle tasse e una riduzione del costo del lavoro. Il Governo, approfittando di una duplice e fortunata circostanza, la riduzione del prezzo del petrolio e della quotazione del dollaro, concluse un accordo complesso e sofisticato con il Sindacato e Confindustria. 

Si aprì qui la seconda fase della politica dei redditi. Il Governo mise sul piatto una consistente riduzione dell’IRPEF, il sindacato il rinvio dei rinnovi contrattuali e la modifica della scala mobile d’intesa con le associazioni imprenditoriali. Lo stato compensò la perdita di gettito dell’IRPEF dirottando al fisco i risparmi derivanti dai ridotti costi dei prodotti petroliferi. Le imprese ridussero i costi degli input, salari ed energia. Si riuscì così a ridurre i prezzi dei prodotti e ad aumentare i profitti, con l’aumento dei salari netti e dei profitti e la discesa del disavanzo pubblico e dell’inflazione. 

Evidentemente quei successi del Governo vennero vissuti dalla DC e dal suo segretario con grande preoccupazione. De Mita fu tra coloro che diedero molto credito all’opinione del direttore de La Repubblica Eugenio Scalfari, il quale non perdeva mai occasione per avversare Craxi. Scalfari insisteva in modo pressante nei suoi editoriali sul fatto che fosse necessario mettere fine nel più breve tempo possibile a quel Governo. L’incubo del direttore de La Repubblica era quello di vedere smisuratamente rafforzato il ruolo del leader socialista, se lasciato alla guida del Governo fino alle elezioni. Nel mese di giugno, De Mita ruppe gli indugi, dando l’ultimatum a Bettino Craxi, il quale due mesi dopo rimise il mandato nelle mani del Presidente Cossiga; ma fu lo stesso Scalfari a scrivere su La Repubblica il 1 Marzo 1987, che in politica economica, il Governo meritava la lode. 

Nel marzo del 1987, Craxi chiuderà la sua esperienza, con l’incarico che venne conferito a Fanfani per formare un nuovo Governo monocolore, sfiduciato dalla stessa DC al fine evidentemente di rendere inevitabili le elezioni anticipate. 

In quel momento l’economia viaggiava sul 3% e gli investimenti, l’occupazione, i salari, erano tutte grandezze in aumento. I conti esterni correvano positivamente, insieme al Made In Italy. Il numero delle imprese era triplicato nel triennio, nel contesto di un’estesa riorganizzazione del nostro apparato industriale. In questo quadro, il Sindacato, si sentì sciolto da patti o impegni, forse perché non aveva più un interlocutore con cui contribuire a sviluppare una qualche strategia. Disse Ottaviano Del Turco: “Fin’ora si è pensato alle imprese e ai loro profitti, ora tocca a noi e ai salari”. 

La situazione andò precipitando. La finanziaria del Governo Goria venne presa d’assalto varie volte da schieramenti trasversali. Saltò il tetto delle pensioni, venne ampliata la spesa per i comuni terremotati dell’Irpinia. I flussi di spesa, pur abbondanti, si mimetizzavano dietro la crescita impetuosa che assicurava entrate fiscali altrettanto consistenti, ma la spesa corse più del PIL a partire dal 1987. Nel 1990, l’incremento della spesa primaria superò il 13%, il 7,5% in termini reali. 

Molti analisti si limitano spesso ad osservare una crescita costante del rapporto debito/PIL prendendo a campione l’intero decennio, commettendo forse un errore, non prendendo in esame le varie componenti di tali andamenti. Gli anni del boom che sono quelli del triennio ‘87-’89 sono in effetti figli degli anni di rigore craxiano, ideali per finanziare la riduzione del disavanzo e la conseguente stabilizzazione del rapporto debito/PIL.

Altri imputano a Craxi l’enorme ammontare del debito, ma sappiamo che Craxi lasciò un debito di circa 420mld di Euro (oggi supera i 2400 miliardi di Euro). Il debito, viene spesso valutato in rapporto al prodotto interno lordo e il rapporto debito/PIL, in quegli anni, era circa dell’88%, mentre oggi ha raggiunto il 135%. 

In definitiva, il Governo Craxi, aveva dovuto pensare alla ricostruzione di una “casa terremotata” chiamando a tutti i sacrifici necessari. La spesa era stata frenata e mantenuta stabile rispetto al PIL, nonostante il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Gli esborsi straordinari della cassa integrazione, la ricapitalizzazione delle imprese a partecipazione statale e tutto, malgrado un’indicizzazione che al calare dell’inflazione spingeva la spesa in modo eccessivo. La frenata del debito, il cui ammontare peraltro non era ritenuto preoccupante dagli organismi internazionali e dalle società di rating, avrebbe potuto essere agevolmente realizzata dopo che l’obiettivo del risanamento dell’economia reale fosse stato conseguito. 

Parrebbe dunque questo, un lavoro rimasto incompiuto.

Foto: Wikipedia

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