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La pirite e l’acqua bianca. Viaggio nell’ex miniera di Catanzaro

Forse è stata proprio quella montagna a dare, secondo alcuni storici, il nome greco di “Temesa” a Catanzaro. Perché ricca di rame e di altri metalli pesanti, dall’etimologia greca di “fonderia”. Quella montagna distante dal capoluogo solo 5 chilometri. Si trova a Gimigliano inferiore, in località Marra, o contrada “Patia”. Una montagna così ricca di metalli pesanti che era conosciuta anche dagli antichi orientali e dagli egei per la bellezza delle realizzazioni, sapientemente create dai primi abitanti di Catanzaro.

Un massiccio crinale prospero di rame e di industrie metallifere era il sito catanzarese a quei tempi. Una ricchezza sfruttata fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso. Poi abbandonata, e molto probabilmente, non bonificata. Era una fortuna in quel periodo poter disporre di pirite per la lavorazione del ferro, e degli altri metalli pesanti. Tempi difficili, quelli, di armamenti e di ricostruzione. Una fortuna costata cara ai minatori che vi abitavano anche nei pressi, in delle casette all’uopo costruite. Oggi non si scava più. Di tutto questo giacimento metallifero sono rimaste solo le immense discariche. Grandi macchie di color giallo e marrone, lontane da quella “mediterranea”, che dovrebbe essergli, invece, più congeniale. La vegetazione la sfiora solamente, non vi si azzarda a rifiorire. Tonnellate di pirite a un colpo di schioppo da Gimigliano. Ceneri di pirite che svolazzano invisibilmente. Dei minatori di Gimigliano pare siano stati una quarantina quelli che hanno perso la vita per malattie al fegato e all’apparato respiratorio. Gli organi che va subito ad intaccare l’acido solforico, una variante chimica dell’arsenico a contatto con l’acqua.

Una montagna trapassata dall’acqua, questa di “Patia”. Dalle falde. Anche adesso. Il padre di Antonio arrivava a casa sempre con i vestiti bagnati, ricorda ancora il figlio che all’epoca aveva solo 9 anni. Falde acquifere e idriche, la natura non fa differenza. Quei poveri minatori costretti, loro malgrado, a lavorare ed ammalarsi lavorando, senza saperlo. Falde che, giù dalla montagna, vanno a ingrossare il fiume Corace, primo refrigerio dei paesi limitrofi e del capoluogo. Le sorgenti sono capillari e sembrano tutte limpide. Ma ce n’è una che spaventa per il suo colore. È quasi bianca. Antonio una volta ha provato a lavarci la macchina con quest’acqua. “Non serve a niente, nessuna la usa. La gente ha paura anche di toccarla”, racconta. La mattina successiva se l’è ritrovata tutta arrugginita, la macchina. La gente aveva ragione. Non serve nemmeno a lavare la macchina quell’acqua bianca. Perché distrugge tutto. Ecco perché neanche i pesci vi si avvicinano. “È inquinata”, incalza un vecchietto che ha il lotto di terra proprio affianco. Ma ci tiene a informarci che la sua, quella che sgorga dal suo terreno, è, invece, limpida. “Questa acqua bianca proviene dalla miniera di ferro, ecco perché è così”. Confluisce nel “Fosso Patia”. Qui tutti sanno che non fa bene. E la lasciano stare, non la usano. Poi sparisce tra i rivoli che gonfiano il Corace.



Nella stessa montagna, nella parte bassa, giace una discarica di Rsu, rifiuti solidi urbani, balzata agli onori della cronaca nell’agosto dello scorso quando un incendio liberò tutto ad un tratto un fetore troppo a lungo imprigionato. È servita come incontrollato deposito di immondizia dal 1987 al 1997. In quella occasione Pasquale Montilla, medico oncologo, denunciò il caso, insospettito da un aumento insolito di tumori e di suicidi nella cittadina, presumibilmente legati agli effetti della diossina e delle altre sostanze novice dei rifiuti in decomposizione. E, contemporaneamente, sollecitò un controllo del territorio per possibili combinazioni di altre concause, quali fonti di inquinamento. Con la scoperta di quest’altra, di natura mineraria, sembrano trovare conferma, quindi, i suoi sospetti.
Sull’ex giacimento di pirite il medico è cauto, in attesa dei dovuti accertamenti, ma non nasconde la possibilità dell’identificazione di tutta l’area come “ad alto rischio per la salute umana”. “Bisogna essere molto prudenti – ha dichiarato - e responsabili, ed attendere eventuali risposte scientifiche di tossicologia ambientale sul reale impatto sulla salute umana della miniera di pirite dismessa.

Certamente si potrà identificare come un’area ad alto rischio ambientale se le analisi tossicologiche confermeranno una probabile infiltrazione delle falde idriche del suolo e del sottosuolo di questi metalli pesanti”. Che, ricorda lo specialista, “sono contenuti in diversa concentrazione nelle ceneri di pirite, come l’arsenico, il rame, il cadmio, il tallio e il piombo, sostanze che un DM del 24 luglio 2004 classifica a certe concentrazioni ecogenotossiche. In sintesi, cancerogene e mutagene. L’arsenico è la sostanza principale, ed è cancerogena di “gruppo 1”, secondo la classificazione dell’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) e si trova in qualità nelle ceneri di pirite. E viene, quindi, riconosciuto come rifiuto tossico pericoloso, e da monitorare. Le eventuali ceneri di pirite ammassate a cielo aperto rappresentano un reale rischio per l’ambiente per la sua estrema capacità contaminante. Ritengo, infine, che sia necessario effettuare un accurato screening tossicologico sulle popolazioni a rischio, eventualmente esposte”.

Pur essendo molto conosciuta l’ex miniera di Catanzaro non fu quasi mai studiata in modo scientifico. Tra i pochi che se ne occuparono Luciano Vighi, che nel 1967, nel suo scritto: "Sulla possibilità di ricerca di nuovi giacimenti di pirite in Italia", indicava proprio Gimigliano come unico sito calabrese di un certo interesse minerario. E, a proposito, riferì: "In questa zona si trovano lenti di pirite di modeste dimensioni entro filladi triassiche simili a quelle della Toscana. La serie triassica in Calabria presenta caratteristiche simili a quelle della serie triassica Toscana. Nella zona di Gimigliano è nota l’esistenza di grandi faglie di formazione posteriore a quella del granito. Non è da escludere quindi che in zone tettonicamente e stratificamente favorevoli possano essersi formati depositi di pirite di pratico interesse. La zona di Gimigliano non è stata mai presa in esame per tale possibilità nè vi sono stati eseguiti rilievi geologici di dettaglio".

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