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La mia Napoli underground: il racconto di Miguel dal Perù

Miguel è nato in Perù, a Lima, dove ha vissuto fino ad 11 anni. I suoi genitori sono partiti per l’Italia quando lui di anni ne aveva 5 e ce ne sono voluti 6 per ottenere il ricongiungimento familiare e permettere alla famiglia di ritrovarsi.

 Miguel nel frattempo ha vissuto con i nonni nella periferia di Lima. Oggi di anni ne ha 30 anni e vive a Napoli da quando è arrivato in Italia, l’anno scorso si è laureato in Management e Marketing all’Università La Partenope, dopo ha seguito un corso di formazione in Gestione delle risorse umane e da qualche mese ha trovato lavoro in una struttura alberghiera. Sotto gli abiti da lavoro Miguel nasconde una grande passione per la break dance che pratica da quando era adolescente. Il ballo nel suo percorso di crescita ha avuto un ruolo fondamentale e gli ha permesso di conoscere nuove persone e acquistare maggiore sicurezza in se stesso.

Stranieriincampania ha incontrato Miguel per parlare di passioni, di integrazione e per scoprire una parte della “Napoli underground” che non tutti conoscono. 

Ciao Miguel, benvenuto su Stranieriincampania, ci racconti come è stato il tuo arrivo in Italia?

Non ti nascondo che è stato traumatico. Fortunatamente mia madre conosceva già una ragazza peruviana che frequentava la stessa scuola, l’ho conosciuta e siamo ancora amici oggi. Questo mi ha aiutato molto, da solo sarebbe stata molto più dura. Non manca mai il ragazzino che ti prende in giro. In più avevo difficoltà con la lingua anche se sono simili. Ovviamente ho dovuto imparare anche il dialetto, per forza, perché tra ragazzi funziona così: o ti dimostri alla pari, o vieni messo un po’ da parte. Io ho scelto di mettermi alla pari! 

La maggiore difficoltà iniziale quale è stata?

Il non avere amici. Facevo sempre scuola-casa e casa-scuola, stavo solo con i miei genitori. I primi due anni non avevo amici. Quando uscivo era solo per andare a prendere mia madre a lavoro. Successivamente ho conosciuto altri ragazzi della mia età, alcuni anche peruviani, e poi ho iniziato a ballare. E col ballo è stata la svolta sociale. Il ballo mi ha portato ad aprire tantissime porte e ha sbloccato tantissimi aspetti della mia personalità perché mi ha portato ad avere a che fare con centinaia di persone, non per forza italiane. 

Come hai iniziato a ballare?

E’ iniziata tramite uno dei primi amici che ho conosciuto qui, è mio coetaneo ma stava a Napoli da più tempo. Per un periodo sono tornato in Perù, lui nel frattempo aveva iniziato a ballare fuori la Posta Centrale dove all’epoca si riunivano i ragazzi e si era creata una scena underground napoletana. La Posta Centrale per molti è stata una culla dal punto di vista artistico. Anche se poi nel 2005/2006 è stata abbandonata quella situazione. Quando ho iniziato avevo 13 anni e forse è stata anche una via di fuga, un modo per non stare chiuso in casa, però sono stato fortunato perché al primo colpo ho scoperto quale fosse la mia passione, è una cosa che non capita a tutti. 

Ce la racconti questa scena underground napoletana? 

 Per anni all’esterno della Posta Centrale si riunivano un po’ tutti, c’erano writers, ragazzi che facevano rap e si sfidavano nelle battles, stessa cosa per la break dance. Mi ricordo che il sabato sera c’erano sempre almeno un centinaio di artisti e che durante il liceo, dopo la scuola andavo a casa, finivo i compiti e correvo a ballare. In quel gruppo eravamo tutti, più o meno, coetanei. C’è da dire che alla Posta sono nati alcuni personaggi che sono ancora vivi nella scena underground e hip hop napoletana, come Speaker Cenzou. Poi le persone sono cresciute, forse il limite è stato quello che non si è saputa rinnovare, non ha trovato ragazzi più giovani da coinvolgere. Fortunatamente non si è perso tutto, solo la Posta come posto di ritrovo. Io ci sono legato perché lì ho iniziato a fare i primi contest ed ho superato la vergogna. Tutto questo ti cambia la vita, lanciarti in una situazione del genere ti cambia la personalità, quando balli per un po’ di tempo scopri dei lati del tuo carattere che non sapevi di avere. Il ballo ti fa sentire più sicuro e questo cambia anche il modo di porsi con gli altri, si sviluppa una grande autostima. 

Cosa rappresenta per te il ballo?

Per me è tutto, dico la verità. Adesso che lavoro non ho più tanto tempo per ballare e devo confessarti che non mi sento bene, sento di non esprimermi al cento per cento. Chi mi conosce adesso e non sa di questa mia parte probabilmente si sta perdendo il 60% di me. Una bella fetta di quello che sono io ha a che fare col ballo. 

Si sente un po’ la mancanza di questi spazi a Napoli?

Sicuramente sì, quando parliamo tra di noi ci preoccupa molto la mancanza di questi spazi al centro di Napoli che offrano la possibilità di fare un corso fatto bene, con una struttura adatta che possa richiamare ragazzi. Se manca la struttura i genitori non ci portano i figli. Noi abbiamo cercato di farlo, in modo onesto e umile, ma senza una buona base non funziona. 

Però un’esperienza di questo tipo l’avete fatta nella Galleria Principe di Napoli? 

Qualche anno fa siamo venuti a conoscenza del fatto che la Galleria era stata “Liberata”, lì a terra c’è il marmo ed è l’ideale per la break dance. Allora siamo andati un giorno per allenarci e abbiamo conosciuto i ragazzi di Gallery Art, uno spazio che era stato occupato per essere restituito alla cittadinanza con attività culturali. Così è nata la possibilità di poter fare un corso per i ragazzini. Quando ci andavamo ad allenare i bambini che frequentavano la Galleria si fermavano a guardarci. Erano proprio gli scugnizzi che abitavano intorno alla zona di Piazza Cavour. Questi ragazzi se stimolati a dovere sono anche quelli che riescono a darti maggiori soddisfazioni e quindi abbiamo deciso di iniziare proprio con loro. Alla fine basta che se ne avvicini uno, poi due e alla fine ci siamo trovati con venti scugnizzi che volevano imparare a ballare la break dance. 

Come era organizzato?

A tenere il corso eravamo in due, insieme a me c’era Enrico Boenzi. Naturalmente il corso era completamente gratuito perché quella era la nostra idea e anche quella di Gallery Art. Abbiamo cercato di ricreare il contesto in cui avevamo iniziato noi, anche se non avevamo avuto guide all’inizio. Montavamo le casse e ci mettevamo all’interno della Galleria. Penso che l’arte è bella anche perché può essere trasmessa, non deve rimanere una cosa personale. Volevamo renderla accessibile agli altri, avevamo piacere che la nostra passione si diffondesse. Così è nata questa esperienza. 

Qual è stata la reazione dei ragazzini e dei loro genitori? 

I ragazzi erano orgogliosi di quello che stavano facendo e hanno iniziato a parlarne a casa, così qualche genitore è venuto a vedere cosa stavano facendo i figli e sono rimasti molto contenti. Non mi aspettavo che in così poco tempo riuscissimo a coinvolgere tutti quei ragazzini. C’è stato un ritorno di quello che abbiamo fatto, peccato che non sia andato avanti. Tra università e lavoro avevamo sempre meno tempo e così piano piano ci siamo staccati. Purtroppo non siamo andati avanti anche se Enrico ha continuato ad insegnare in alcune scuole. A me non interessava farlo come lavoro, anche se ho avuto la possibilità di fare degli stage di breve durata, erano delle dimostrazioni di poche ore. 

Avete organizzato anche dei contest in Galleria, ce li racconti?
Si chiamano battles, come nel rap. A quegli eventi, oltre ai nostri ragazzi venivano allievi delle scuole di ballo, i ragazzi del Mammut di Secondigliano e altri che lo facevano per strada come noi. Apro parentesi sul Mammut perché è un altro contesto bellissimo che veramente aiuta a togliere i ragazzi dalla strada facendo cose sane.

In qualche modo, durante quel periodo, siamo riusciti a tenere questi scugnizzi lontani dalla strada. Secondo me, in quel momento, ci siamo riusciti. Forse se avessimo avuto più tempo e più mezzi qualcuno di loro oggi farebbe questo nella vita.

Uno di questi bambini, dopo qualche anno, è stato coinvolto in un brutto episodio di cronaca nera. Tu lo hai conosciuto, hai avuto modo di vedere un altro volto, cosa ne pensi?

Me lo ricordo bene, veniva a fare lezione ed era uno dei più bravi. Non lo dico così per dire, lo era veramente. Era molto carismatico e aveva un sacco di energie. Quando quell’energia la incanali nel modo giusto, in modo positivo, poteva fare solo del bene per se stesso e per gli altri, invece se la lasci per la vita di quartiere rischi che sfoghi in altro modo. Quel bambino è stato sfortunato, per il contesto in cui è nato e per quello che la vita gli ha offerto. Purtroppo viveva un contesto familiare non semplice. 

In qualche modo voi gli davate un’opportunità?

Non voglio dire proprio un’opportunità, noi gli abbiamo dato modo di conoscere che c’era altro. Quando veniva si divertiva perché stava facendo quello che gli piace fare e non stava buttato per strada. Per mesi si è tenuto fuori dai guai venendo al corso. Enrico anche ci è rimasto malissimo perché certe volte lo riaccompagnava a casa dopo i corsi. Per me quel bambino resta uno di quei geni inespressi vittime della società. Credo che sia un caso eclatante di vittima della società in cui viviamo. 

Facciamo un passo indietro, anche tu hai dovuto affrontare delle difficoltà appena arrivato in Italia e hai dovuto fare delle scelte

Qualche giorno fa è tornato un mio amico napoletano che si è trasferito a Francoforte per lavoro ormai da nove anni. Mi ha detto che adesso capisce che vuol dire affrontare un percorso di integrazione e che ha pensato a me mentre stava là, anche se prima non mi aveva mai osservato sotto questo aspetto. Mi ha sempre visto come uno di loro, che faceva parte del gruppo, non uno che si doveva integrare. Gli ho spiegato che forse questa cosa dipendeva dal fatto che mi avesse conosciuto in un momento della mia vita in cui avevo già dato una svolta, ma che in realtà mi ero sforzato di non farlo pesare a me e a quelli che ho conosciuto. Ho dovuto prima fare un grande lavoro su me stesso. Mi ha fatto piacere questa cosa che mi ha detto. Tanti ragazzi della mia età sono un po’ chiusi, le comunità in generale sono un po’ chiuse, questo può essere un bene per preservare le proprie tradizioni, ma è un’arma a doppio taglio perché bisogna imparare a stare in un posto. Adesso lo dico come se fosse una cosa semplice, mi ha aiutato sicuramente arrivare da piccolo, chi arriva già grande affronta molte più difficoltà. I miei, per esempio, sono sicuramente integrati, hanno tanti amici italiani, però tengono una parte peruviana molto più forte. Io solo dopo i vent’anni ho iniziato a fare un percorso sforzandomi di imparare quanto più possibile sulla cultura peruviana, è una parte di me che non voglio perdere. 

Cosa ti manca del Perù?

La famiglia e i miei affetti sono al primo posto, poi il cibo anche se con mia madre facciamo i nostri piatti tipici, ma è difficile trovare le stesse materie prime, gli ingredienti veri non li trovi mai. Mi mancano i miei amici anche se, essendo cresciuti in posti diversi, i miei veri amici sono qui, però ho ancora ricordi dei compagni delle elementari con cui sono in contatto tramite i social e ogni tanto ci parliamo. Resta una bella parte di me ancora là e non ho voglia di perderla. Io non torno in Perù dal 2000.

Cosa ti sei portato dietro del Perù?

Ma non saprei, forse un po’ di genuinità, nel senso che fino ad 11 anni ho vissuto a Lima tra città e campagna. Sono nato in campagna, poco fuori la città e sono stato là fino a cinque anni, poi mi sono spostato in città e tornavo solo d’estate. La campagna mi ha dato un po’ di genuinità nel modo di essere, perché capisci che non hai bisogno di tante cose per essere felice. Noi non avevamo neanche la televisione e mi ricordo le giornate passate a giocare fuori con i miei cani. Questa è una parte di me che mi piace, poi le cose cambiano, oggi non saprei come fare senza telefono. Però mi piace ricordare quei momenti. 

Hai preso la cittadinanza italiana?

Purtroppo non ho ancora la cittadinanza, ho perso l’occasione perché quando ho fatto 18 anni dovevo avere dei requisiti e non ce li avevo: vivevo in una casa troppo piccola per gli standard richiesti. Adesso sto aspettando di raggiungere i crediti necessari con il lavoro. Ho avuto anche un problema sui rinnovi dei permessi di soggiorno, un anno ho dovuto farlo due volte con una spesa enorme. Dover rinnovare il permesso di soggiorno era una cosa che, ogni volta, mi riportava con i piedi per terra. Nel senso che stai da tanto tempo qui in Italia, hai tutti i tuoi amici qui, la tua vita, però poi arriva il giorno in cui devi andare in Questura e ti rendi conto che sei straniero e vieni trattato come straniero. Adesso ho la carta di soggiorno che non ha scadenza, ma non è la cittadinanza, per esempio non posso votare. Andare in Questura ed assistere a determinate scene è la cosa che mi disturba di più, ho assistito a scene vergognose. Un signore mi disse: un essere umano che vive con scadenze, vive pieno d’ansia. Questo ancora di più se stiamo parlando di un documento che rappresenta la tua identità. Se tu sai che quel documento scade dopo poco, vivi sempre nell’ansia. 

Come ti definiresti, italiano o peruviano?

Peruviano. Fino a 20 anni forse no, poi dopo ho preso coscienza di me. Mi piace essere peruviano e ti senti un po’ come se fossi ambasciatore di una cultura. Ho scoperto le ricchezze artistiche, culturali, architettoniche e storiche del Perù, questo mi rende molto orgoglioso. Mi fa piacere anche quando mi dicono che sono napoletano e italiano, ma l’importante è che riesca a interagire con gli altri e far capire quello che sono. 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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