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La globalizzazione ha creato un mondo più instabile

Il principio dei "vasi comunicanti" applicato all'economia sta creando un mondo sempre più interconnesso ed instabile

Siamo abituati a pensare alla globalizzazione attingendo alla nostra realtà quotidiana: i grandi marchi, le note catene di fast food, i sempre più numerosi negozi di abbigliamento. Tuttavia, la globalizzazione è anche - e direi soprattutto - un fenomeno finanziario: la mobilità delle merci è più che compensata dalla mobilità dei capitali. Ogni giorno trilioni di dollari viaggiano da un capo all'altro del mondo, tramite fondi comuni d'investimento, società di brokeraggio, hedge fund e quant'altro. 

I "grandi ricchi" - il famigerato 1% dell'èlite mondiale che, secondo molti economisti, è il vero "utilizzatore finale" (si permetta l'espressione) del fenomeno "globalizzazione" - sono alla costante ricerca di rendimenti elevati per i loro capitali. La globalizzazione ha accelerato la velocità di questi capitali, e ha moltiplicato le opportunità spaziali di investimento.

Gli economisti classici hanno spiegato in numerosi contributi teorici come la globalizzazione fosse un processo a "somma positiva": essa certamente favoriva le classi più abbienti, ma grazie alla nota frase secondo cui "l'alta marea solleva tutte le barche", anche la middle-class ne avrebbe tratto vantaggio, in termini di prezzi minori e maggiore offerta.

I capitali altro non avrebbero fatto che correre verso le nuove opportunità rappresentate dai paesi "emergenti" (molti dei quali sono già emersi da un pezzo), e il surplus estratto da questi Paesi avrebbe finanziato la crescita dei paesi ricchi.

Al di là della dubbia efficienza degli investimenti effettuati con questi capitali (si pensi, ad esempio, alle bolle asiatiche del 1997-98), il punto è che la globalizzazione nella forma attuale non è affatto un sistema stabile, ma è esposta ai capricci delle Banche centrali, che sono ormai il vero playmaker delle scelte degli agenti economici. Si è visto negli ultimi giorni: al primo battere d'ali della Fed americana (che ha annunciato un minore impegno nel "pompaggio" della liquidità dei mercati), il panico si è materializzato nelle Borse di mezzo mondo, da Buenos Aires a New Delhi passando per Istanbul.

Il principio è molto semplice: la globalizzazione presuppone denaro a buon mercato, il che vuol dire bassi tassi d'interesse. Se i capitali americani si accorgono che in prospettiva converrà di più investire sui "propri" titoli di Stato che su quelli argentini o turchi, prima o poi lo faranno. 

Ciò che sta emergendo in questi confusi giorni di ritorno del panico sui mercati azionari è che la globalizzazione dipende, in ultima analisi, dalla volontà dei banchieri centrali americani di continuare ad inondare i mercati di liquidità. Se ciò dovesse cessare, il calo degli spread di cui Letta ha parlato (glorificandolo come un risultato dell'azione del governo) potrebbe sciogliersi come neve al sole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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