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La faida. Storia della genesi delle guerre di Scampia/ Prima parte

Aniello La Monica, alla fine degli anni settanta, era considerato il camorrista per eccellenza a Secondigliano, quartiere periferico di Napoli. Non era un soggetto capace di accettare compromessi. Uomo deciso e di azione, oltre che spietato, conosceva bene come e quando “liquidare” nemici veri o presunti. 

In quel determinato periodo storico, disponeva di una “batteria” di fuoco che davvero nessuno poteva contrastare, composta da almeno un’ottantina di killer, guaglioni di Secondigliano, spavaldi e pronti a tutto per Aniello La Monica. 
 
Gaetano Guida, nel corso di un interrogatorio dichiara: "Nel 1980, nel popoloso quartiere di Secondigliano non esisteva ancora un riferimento al clan Licciardi, chi contava in quegli anni era solo Aniello La Monica, il più feroce avversario di Raffaele Cutolo. Lui abitava “miezz all’arco” in una costruzione alla quale si accedeva dalla strada attraverso un grosso cancello di ferro, vicino alla sua abitazione vi era un bar, che noi usavamo come punto di ritrovo". 

A Secondigliano, Aniello La Monica era davvero un re, il boss che ammirava i mafiosi siciliani per la loro decisione e per un senso dell’onore che non ammetteva deroghe o discussioni. Per questo motivo aveva, nel corso della sua breve esperienza di boss, cercato di intrecciare buoni rapporti con esponenti della criminalità siciliana; tanto è vero che trattava da pari con Michele Greco (nella foto) e con Pippo Calò. 
 
La Monica era anche pronto per l’affiliazione a Cosa Nostra. Per questo motivo, non godeva di molte simpatie da parte dei camorristi partenopei ad eccezione di Michele Zaza, il più mafioso tra i camorristi partenopei. 
 
Agli inizi degli anni Ottanta, del secolo scorso, il boss di Secondigliano era in grado, nel suo quartiere, di assicurarsi il rispetto assoluto di tutti, riuscendo nella non facile impresa di ottenere il pagamento settimanale del pizzo dalla totalità dei commercianti della zona. A dire il vero, per i commercianti pagare settimanalmente il pizzo agli esattori del boss era una garanzia di tranquillità, in un quartiere dove la legge aveva un nome ed un cognome Aniello La Monica. 
 
La sua carriera criminale era cominciata con i furti e con le rapine poi aveva fatto un salto in avanti davvero importante tanto da entrare nel “sistema del contrabbando delle sigarette” al soldo di Michele Zaza (nella foto). Anche grazie all’importante sostengo di Don Michele, La Monica era riuscito a formare un gruppo tutto suo a nord di Napoli, anche attraverso il reclutamento di tanti giovani disoccupati e disperati che cercavano guadagni facili. 
 
L’inizio di questa avventura criminale per il clan di Secondigliano non fu facile, in quanto bisognava fare i conti con i Giuliano di Forcella e con le altre famiglie storiche della camorra poco disposte ad accettare, tra loro, dei nuovi capi. In poco tempo il mito di Don Aniello si estese a giovanotti ambiziosi che già pensavano in grande per il loro futuro criminale,quali Giuseppe Ruocco e Paolo Di Lauro
 
La Monica era un perfetto capo clan, capace di utilizzare al meglio le caratteristi-che individuali di ogni suo uomo. Di Paolo di Lauro, Don Aniello ammirava la meticolosità, la precisione organizzativa, l’attitudine a fare i conti, a gestire, in maniera perfetta, i guadagni della estorsioni, del contrabbando delle sigarette, della droga, in modo che nessuno degli spacciatori o dei commercianti taglieggiati sfuggisse al pagamento, mentre di Giuseppe Ruocco apprezzava lo spirito violento, la capacità di sparare senza aver alcuna paura. 
 

I libri paga del clan erano tenuti dal Di Lauro conosciuto nell’ambiente criminale anche con il simpatico appellativo di Ciruzzo 'o milionario (nella foto), un perfetto ragioniere del crimine che pensava che ogni questione criminale potesse essere risolta con una discussione, anche dai toni molto accesi, in quanto riteneva che l’omicido fosse solo un estremo strumento a cui ricorrere solo quando i rapporti di forza fossero favorevoli. 
Come i mafiosi, prima dell’avvento dei corleonesi, Aniello La Monica preferiva, ed in questo era d’accordo con il Di Lauro, il silenzio, le poche parole, la copertura silenziosa delle attività criminale, ritenendo che era sufficiente garantire il “pane” a molti giovani disperati che erano inseriti, a vario titolo e con diverse e specifiche competenze, nel cartello criminale. Se il consenso fosse stato totale, l’omicidio sarebbe stato inutile e le forze di polizia non avrebbero avuto alcun motivo di mettere il naso negli affari del clan. 
 
Aniello La Monica, secondo quanto dichiarato da Costantino Sarno, nel periodo in cui collaborava con la giustizia, ammirava Ciruzzo il milionario più di Giuseppe Ruocco, anche se, da camorrista provetto e navigato, era cosciente che, proprio per la sua maggiore intelligenza, fosse proprio Paolo Di Lauro, il più pericoloso tra i due
 
Paolo Di Lauro all’apparenza era meno violento, ma più spietato e cinico nelle decisioni a freddo, un vero e proprio calcolatore dai modi garbati e dalla violenza delegata ad altri. Il business della droga, nel grande supermarket di Secondigliano, quartiere periferico a nord di Napoli era la torta più consistente che i clan dovevano spartirsi, altro che estorsioni ai cantieri e lotto clandestino., ma era Licciardi a fare da padrone sul business. 
 
Il boss emergente aveva imposto che tutti gli spacciatori dovessero rifornirsi da lui. Ma Paolo Di Lauro, riuscì a sfuggire al controllo di Licciardi (nella foto), detto a scigna, (la scimmia) continuando ad acquistare la droga dai suoi soliti fornitori di fiducia. 

Il salto di qualità Paolo Di Lauro riuscì a farlo solo quando decise che era venuto il momento di liberarsi di Aniello La Monica, per prenderne il posto. Per arrivare a questa decisioni, fu necessario una specie di summit, anche al fine di coinvolgere i Ruocco ed i Prestieri (nella foto), ognuno ne avrebbe ricavato dei vantaggi, innanzi tutto una maggiore autonomia nella vendita della droga in zona da divedersi con matematica precisione. Paolo Di Lauro spiegò ai partecipanti al summit che il La Monica si era impossessato di una somma superiore a quanto gli spettasse. 

Fu Antonio Ruocco, da collaboratore di giustizia a raccontare agli inquirenti alcuni dettagli sull’omicidio, precisando che il La Monica venne attirato fuori di casa con una scusa, gli dissero che doveva vedere dei brillanti da acquistare, ma appena uscì dal portone di casa, l’auto su cui viaggiava il commando lo investì in pieno. Tra gli uomini del comando vi era anche Paolo Di Lauro. Ad uccidere La Monica, non furono alcuni killer assoldati dal suo nemico storico Raffaele Cutolo, bensì alcuni dei suoi fedelissimi. 
 
Nei mesi successivi alla morte di La Monica ci furono degli assestamenti; fu ucciso Mimì Silvestri e, Paolo Di Lauro, senza troppi rischi, riuscì a prendere piede in un quartiere dove la presenza di Licciardi era, nel frattempo, divenuta predominante.
 
(continua)
 
Di Giuseppe Parente
Questo articolo è stato pubblicato qui

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