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"La donna che canta": un viaggio di sola andata tra segreti inconfessabili creduti sepolti

Di recente tornato sul grande schermo con Blade Runner 2049, (ri)scopriamo La donna che canta, quarto lungometraggio del canadese Denis Villeneuve, regista di Enemy e Sicari.

 

Canada. I due fratelli gemelli Jeanne (Mélissa Désormeaux-Poulin) e Simon (Maxim Gaudette) ricevono dal notaio Jean Lebel (Rémy Girard) le ultime volontà della madre Nawal Marwan (Lubna Azabal). La donna chiede ai due figli di consegnare due lettere: una al padre, mai conosciuto e ritenuto morto in guerra e l’altra al fratello, di cui ignorano l’esistenza. Simon, sconvolto, rifiuta di accettare questa realtà. Jeanne, invece, decide di partire per il Paese natio della madre, così da mettersi sulle tracce del padre e del presunto fratello. Più Jeanne procede con la sua personale indagine, più il passato oscuro di Nawal viene a galla. Un passato fatto di drammi, guerra e violenza che ha segnato la vita di Nawal, portandola a scelte estreme pur di sopravvivere.

Il cinema di Denis Villeneuve è stratificato su quell’insistenza della macchina da presa sullo sguardo: sguardo che diventa il mezzo, il tramite per vedere e carpire il mondo con occhi privi di filtri. Uno sguardo sempre inquieto, in perenne movimento e che codifica la sua stessa ragione di esistere su quei volti attoriali, sui primi e primissimi piani sempre presenti (e insistenti) nella filmografia villeneuviana. Si potrebbe dire che le opere del regista canadese sono basate sulla costante del guardare e vedere, e di certo non sarebbe un errore affermare che, effettivamente, le azioni del guardare e vedere occupano ampio spazio nei lavori di Villeneuve; azioni, queste, che vengono a collidere e a fondersi con quel leitmotiv della ricerca nei confronti di qualcosa di ben preciso. Che sia l’estenuante e violenta ricerca di un colpevole come in Prisoners o quella di un doppio, dell’altro da sé tanto simile quanto sfuggente in Enemy, la ricerca di un contatto con altre civiltà come in Arrival, oppure della verità in mezzo a spietati narcotrafficanti e paramilitari o replicanti e umani rispettivamente in Sicario e Blade Runner 2049, quel sottile fil rouge che lega tra di loro i lungometraggi di Villeneuve non poteva non essere anche al centro del suo quarto film: La donna che canta (Incendies, 2010).

Tratto dall’opera teatrale Incendies di Wajdi Mouawad e in parte basato sulla vita dell’attivista libanese Souha Fawaz Bechara nonché su fatti avvenuti durante la guerra civile in Libano, La donna che canta è un viaggio di sola andata tra segreti inconfessabili creduti sepolti, abbandonati tra la polvere e le rovine del Medio Oriente, in quella realtà dilaniata dalla guerra e dall’ottusa e inumana violenza dell’uomo. Senza troppi manierismi o abbellimenti di alcun tipo, Denis Villeneuve ha costruito la sua opus n. 4 su un doppio punto di vista: quello di Jeanne, ragazza con una carriera di assistente universitaria già avviata, cresciuta lontana dagli orrori della distruzione, e quello di Nawal, donna logorata da tutto ciò che ha vissuto e sopportato durante il conflitto bellico. La donna che canta si trasforma nella storia di formazione di due donne, rispettivamente di una madre e di una figlia accomunate da quel desiderio, da quell’obbligo insindacabile di portare alla luce la verità, rischiando la propria esistenza e mettendo a repentaglio le solide convinzioni costruite con estremo sacrificio e voglia di abbandonare il passato alle spalle.

Parimenti La donna che canta diventa metafora di un viaggio alla ricerca, oltre che della verità, di se stessi; un viaggio tra i luoghi una volta segnati dalla distruzione, dal fuoco, dal sangue, dalle pulizie etniche e dagli spiazzanti scoppi di violenza (che Villeneuve ritrae, senza tuttavia essere gratuito o provare alcun accanito compiacimento verso i dettagli sanguinolenti) e, adesso, ricostruiti ex novo, che vivono di una nuova luce ma – tuttavia – senza essere stati abbandonati dai timori, dall’omertà e da quelle dottrine religiose che sfiorano – a volte – il fanatismo più puro e controverso. La donna che canta è un ritratto di donne, un affresco del mondo femminile che, in alcune realtà a noi contemporanee, è tuttora sotto il giogo della volontà e della violenza dell’uomo. Le figure maschili in La donna che canta sono presenti e, di certo, non relegate a comparse in secondo piano; piuttosto Villeneuve ritrae l’uomo, il maschio o come “impotente” dopo essere stato investito da un dramma impensabile e taciuto o come carceriere, torturatore senza pietà ed empatia che – ciononostante – diventa a sua insaputa il centro propulsore da cui il destino prende forma.

Opera nuda e cruda su un dramma esistenziale che prende le mosse sullo sfondo della guerra civile libanese, La donna che canta è un film che insiste, come precedentemente affermato, sull’importanza dello sguardo, del guardare e vedere (che diventa, come nelle altre opere villeneuviane, triangolazione visiva tra regista, personaggio e spettatore) e – infine – del volto, quest’ultimo medium, tramite tra passato e presente, tra segreti e tristi verità purtroppo celate e di colpo svelate, così come è la rappresentazione di quelle peregrinazioni, fisiche e non, necessarie per raggiungere la verità anche a caro prezzo, andando incontro al proprio destino con gli occhi bendati ma intonando a squarciagola un canto sì impaurito e disperato bensì non del tutto piegato alla violenza altrui e che, nelle parole, afferma la volontà e la cieca resistenza a (soprav)vivere nel corpo e nello spirito nonostante le avversità della vita stessa.

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