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La cronaca nera in tv: un massacro mediatico

Come i colpevoli dei crimini dei quali si alimentano, i mass-media sono in grado di compiere il male, ma non sono in grado di intenderlo: non ne comprendono né la natura né la gravità, benché lo esercitino.

Molti criminali, finendo sulle ribalte della cronaca giornalistica, presto o tardi dimostrano in aula o fuori dall'aula giudiziaria la propria infermità o semi-infermità mentale, quindi l'incapacità di intendere e di volere i mali che hanno causato. Quando un fatto di sangue giunge alla cronaca, televisioni e giornali straripano dei primi piani degli inquisiti, carichi di espressioni ebeti, glaciali o spietate, che manifestano la loro devianza, quando addirittura non tentano di provarla. Difficilmente i giudizi mediatici risparmiano di sottolineare la follia dei mostri, quindi la loro incapacità di essere responsabili. Del resto, se tali fatti non fossero straordinari, se non travalicassero i limiti del comportamento ragionevole, non si sentirebbe il bisogno di parlarne. Ma a ben vedere le cose non stanno proprio così.

Molti sostengono che, trattandosi di situazioni che ci riguardano tutti, in quanto vittime o potenziali vittime, è giusto che, intorno ai casi macabri, nasca una discussione aperta a tutta la società. Questi fatti però riguardano la società in quanto colpevole o complice. Quando i giornalisti assediano Montroz e Cogne o quando le telecamere ci fanno vedere l'assembramento di folla che scatta foto davanti a casa Misseri, come possiamo non ricordare l'adagio per cui il colpevole torna sempre sul luogo del delitto?

I mass-media dimostrano la propria incapacità di volere. Il giornalismo non vuole fare ciò che fa, ma lo fa per l'abitudine di obbedire alle istanze del marketing. I casi macabri si avvicendano continuamente e sono molti più di quelli che conosciamo, ma l'interesse dei media si concentra solo su alcuni di essi. Ecco la prima istanza mutuata dal marketing: spingere un prodotto per volta perché sovraccaricare il pubblico è controproducente. Per altro verso, ogni nuovo caso di cronaca degno di sollevare un vespaio mette a fuoco aspetti morbosi differenti da quelli dei casi precedenti. Ci è stato raccontato nei dettagli un solo infanticidio eclatante (quello di Samuele Lorenzi a Cogne, 2002), così come ci sono stati raccontati nei dettagli un solo omicidio casuale (quello di Marta Russo a Roma, 1997) e una sola strage condominiale (Raffaella Castagna e Youssef Marzouk uccisi a Erba nel 2006). Ci è stato raccontato con dovizia di particolari un solo parricidio (quello di Susanna Cassini e Gianluca De Nardo a Novi Ligure, 2001). La seconda istanza del marketing è l'eterogeneità: si deve sostituire il prodotto della stagione passata con uno completamente differente perché il pubblico è attratto dalle novità stupefacenti. Un nuovo caso simile a quello di Meredith Kercher non avrebbe interessato quanto il delitto compiuto ai danni di Sarah Scazzi. I moventi, le passioni, le relazioni sociali e i coinvolgimenti emotivi devono essere differenti per acquisire la dignità di essere discussi dalla massa.

I media di massa d'altra parte dimostrano anche di essere incapaci di intendere quando non comprendono il proprio concorso di colpa nell'operazione discorsiva. Michel Foucault (La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 2010, or. 1976) ha dimostrato che fino al XX sec. il discorso dei saperi (cioè i discorsi del potere) era relegato nei luoghi delle istituzioni (tribunale, ospedale, chiesa, scuola, etc.) ed era controllato dai relativi responsabili (ciò che veniva confessato al giudice usciva dall'aula solo a sua discrezione e ciò che veniva dichiarato al medico veniva condiviso solo con gli altri scienziati), per cui il potere era distribuito tra l'oligarchia degli specialisti. Oggi invece il discorso del sapere è in strada (nelle edicole) e nell'aria (con le trasmissioni radiotelevisive) e non è più discorso ma brusio, vespaio, pettegolezzo, quindi corre più velocemente, è più diretto e più efficace e, soprattutto, è maggiormente emotivo perché privo di un filtro istituzionale. Questo nuovo potere è gestito principalmente dai mass-media, i quali sono spesso pilotati dalle decisioni del mondo politico e da quello economico, che regola gli aspetti politici e vitali della società (per cui Foucault ha coniato il concetto di bio-potere).

I mass-media discorrono incessantemente di qualsiasi cosa, 24 ore su 24. "Bene o male, l'importante è che se ne parli" (Oscar Wilde) è una preziosa regola adottata dal marketing, che ha attratto i discorsi comuni nel dominio dell'economia. Purtroppo ciò ha un pericoloso effetto collaterale. I media, parlando di certi fatti senza freni e con malizia, si rendono colpevoli di tali fatti perché li realizzano: come spiega John Austin (Quando dire è fare, Torino, Marietti, 1974, or. 1962), parlare di una cosa non equivale semplicemente a riferire un pensiero su di essa, bensì la pone in essere. Usare le parole è un modo di costruire il mondo: parlare di qualcosa definisce ciò che si pensa e ciò che si sa di quella cosa; innesca un processo cognitivo ed epistemologico che elabora il sapere. Quando i discorsi di un popolo costituiscono un humus in cui la devianza viene assunta come referente comune per l'interazione sociale, quei fatti diventano un punto di riferimento per i comportamenti futuri, diventano la norma, cioè non sono più considerati come anomalie e possono verificarsi di nuovo e con maggiore frequenza: possono ripetersi. Ripetere significa tanto "fare ancora" quanto "dire ancora". Dire è fare.

Quando i mass-media raccontano i fatti devianti e abnormi trattandoli come eventi che possono essere detti senza alcun contegno, con lo scopo di produrre e alimentare i discorsi per alimentare l'audience, il bagaglio culturale del pubblico viene modificato: i discorsi mediatici creano o rafforzano un referente culturale per i comportamenti condivisi, attivano l'attenzione sociale verso possibilità concrete. Parlare di qualcosa serve a indicarne la reale esistenza come fatto. E conoscere l'esistenza di qualcosa implica il desiderio di sperimentarla per conoscerla direttamente, senza mediazioni.

Il punto non è impedire che si parli dei fatti macabri o impedire che ne parli la gente, lasciandone la trattazione agli specialisti. Il punto è che quando i fatti abnormi vengono trattati come bagatelle essi diventano fatti da poco, quotidiani, soliti invece che insoliti. Ne risulta che le persone cominciano a manifestare maggiormente le cariche aggressive per imporre il proprio volere, sentendosi legittimate a minacciare l'esecuzione di "un fattaccio" che ormai ci si è abituati a condividere. Quando l'indagine sull'eccesso (che, fino a ieri, era riservata agli esperti e ai loro uffici) diventa discorso eccessivo (moltiplicato), l'osceno acquisisce diritto di parola (fuori dall'aula giudiziaria e fuori dallo studio medico) e comincia a parlare di sé anche quando non viene interrogato. Dalla tutela del malato di mente, siamo passati alla sua comprensione, quindi alla tolleranza che ci ha fatto accettare il malessere e il disagio di qualche disadattato ai margini delle strade delle nostre città: nessuno ha il diritto di fare niente per loro, se loro non vogliono essere aiutati. Tolleranza infinita che equivale a nessuna comprensione.

Pierre Rivière nel 1835 commise un eccidio per il quale, messo in bilico dalle istituzioni tra follia e ragione, fu odiato ed esecrato da chiunque perché, colpendo il contratto matrimoniale, colpì l'ordine sociale. Ieri Pierre Rivière accompagnò il proprio crimine con uno scritto, per spiegarsi e per far sapere; oggi i mass-media creano un sapere registrando, trascrivendo, riscrivendo e interpretando i discorsi dei criminali e i discorsi fatti intorno ai criminali, fornendoli di senso, configurando un senso sociale, come se sapessero relazionarsi con la follia meglio del potere costituito. E forse è proprio così: tramite i discorsi giornalistici, la mentalità criminale si è diramata nel tessuto sociale fino a diventare familiare e non più notevole. I media di massa con i loro atteggiamenti dimostrano di conoscere molto bene il male, di intercettarlo spesso prima della giustizia e di essere pronti a confrontarsi con esso altrettanto rapidamente e con altrettanta efficienza rispetto alle istituzioni del passato.

Se vogliamo rifiutare la barbarie, oltre a informarci dovremmo rifiutare di partecipare ai salotti che ciarlano sulla cronaca nera: dovremmo spegnere la TV, eludere le morbosità della cronaca nera ed evitare di chiacchierare dei crimini, per non renderci complici.

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