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La Resistenza europea attraverso gli archivi britannici

Un libro recente di Olivier Wieviorka riesamina la storia della resistenza nell’Europa occidentale attraverso un’ottica particolare: le scelte delle varie organizzazioni governative britanniche (spesso in conflitto tra loro e con le parallele strutture statunitensi, quando queste intervennero nel conflitto) che erano responsabili dell’appoggio alla “guerra sovversiva”.[1]La tesi sostenuta dall’autore è che sarebbe necessaria una revisione della versione agiografica che fino agli anni Settanta avrebbe in tutti i paesi “esaltato la propria Resistenza interna” e in genere minimizzato o taciuto il contributo degli Alleati. In realtà un elemento che emerge dall’abbondante documentazione riportata e su cui manca una riflessione adeguata è che gli appelli barricadieri di alcuni esponenti laburisti come Hugh Dalton, ministro dell’Economia di guerra, sono rimasti senza seguito per almeno tre anni. Dalton aveva dichiarato:

Dobbiamo organizzare nei territori occupati dal nemico movimenti paragonabili al Sinn Fein irlandese, alle guerriglie cinesi attualmente operative contro il Giappone, agli irregolari spagnoli che tanto peso hanno avuto nella campagna di Wellington... [2]

Dalton faceva poi cenno con qualche imbarazzo alla possibilità di prendere a modello perfino le presunte “Quinte colonne” a cui venivano attribuiti i successi militari tedeschi nel primo anno di guerra, e parlava di costruire una “Internazionale democratica” che avrebbe dovuto far ricorso a svariati metodi “tra cui il sabotaggio industriale e militare, gli scioperi e le agitazioni dei lavoratori, la propaganda incessante, gli atti terroristici contro i traditori e i capi tedeschi”. [3] 

Ma i suoi progetti rimanevano sogni, sia per la logica diffidenza verso la Gran Bretagna, sia perché alla testa del SOE (Special Operations Executive) che inizialmente era collegato al suo ministero, erano subentrati elementi conservatori, che privilegiarono per tutta la durata della guerra interlocutori per lo meno ambigui, come i militari danesi o olandesi, e perfino parte dell’apparato collaborazionista di Vichy.

Nel libro solo fugaci accenni, in genere tecnici, spiegano la suddivisione per aree di influenza che portava la Gran Bretagna a rinunciare a seguire o appoggiare la resistenza in paesi dell’Europa centro orientale in cui si riconosceva la preminenza degli interessi sovietici (anzi, per essere più esatti, russi). Ma si capiscono anche le ragioni delle tensioni tra la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la resistenza francese, dovute a una forte ostilità al nazionalismo del generale De Gaulle, che aveva rifiutato misure ritenute lesive della dignità e della sovranità del suo paese, come la preparazione a Londra di una nuova moneta per la Francia che il generale ribelle definiva brutalmente “falsa”. D’altra parte De Gaulle non aveva aspettato autorizzazioni per rimuovere prefetti e sottoprefetti che alti esponenti britannici come il maresciallo Montgomery avrebbe mantenuto al loro posto (come d’altra parte è accaduto con i podestà fascisti in molte città del sud Italia “liberate”.

Wieviorka riporta molti giudizi ostili dei militari britannici nei confronti delle forze combattenti (di cui un colonnello diceva che erano “giovani farabutti, cresciuti durante la guerra e oggi disoccupati [...] che non rispettano nessun diritto. In una città hanno imbracciato le armi, ignorando gli ordini del sindaco, rubato la sua automobile e spiccato senza nessuna autorità mandati di arresto contro le persone che sospettavano di collaborazionismo”[4]. Ma giudizi sprezzanti erano rivolti anche a esponenti borghesi troppo indipendenti: del conte Carlo Sforza si diceva che “era immensamente presuntuoso e che ora rasenta il rimbambimento”, mentre in una lettera a Roosevelt lo stesso Churchill definiva Benedetto Croce “un filosofo nano di 75 anni che scrive bei libri di estetica e filosofia” e chiamava a sostegno come esperto il cinico Višinskij (menscevico nel 1917, grande accusatore dei Processi di Mosca e poi inviato di Stalin in Italia a sostegno del governo Badoglio), che a quanto pare scherzava sui libri di Croce sostenendo che aveva “provato a leggerli e dice che sono ancora più noiosi di quelli di Karl Marx”.

È chiaro che né il conte Sforza né Croce erano pericolosi sovversivi, ma avevano una dignità: soprattutto non erano sopportati da Churchill perché erano convinti che fosse necessaria subito l’abdicazione di Vittorio Emanuele III. Benedetto Croce era “monarchico nell’anima” ma non aveva dubbi:

Fin tanto che rimane a capo dello Stato la persona del presente re, noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corromperci ed infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato, e insomma che, così, non possiamo respirare e vivere.[5]

Croce aveva dato questo giudizio nettissimo nel gennaio 1944 ma il governo di Londra teneva duro, nonostante i dubbi di quello di Washington e l’ostilità di gran parte delle forze politiche italiane. Tuttavia l’arrivo di Palmiro Togliatti, con la nuova linea (la “Svolta di Salerno”) appoggiata dal rappresentante russo Andrej Višinskij, che aveva riconosciuto già l’8 marzo il governo Badoglio, spinse gli Alleati a premere su Vittorio Emanuele III perché cedesse al figlio la luogotenenza del regno, per evitare che una pressione dal basso facesse saltare gli equilibri raggiunti. Badoglio (che tuttavia aveva non meno responsabilità del re) se la cavava per il momento, proprio grazie all’appoggio dell’URSS e di Togliatti. Il ministro conservatore Harold Macmillan, che seguiva da vicino la vicenda, aveva ironizzato sui partiti liberali e moderati che “hanno un gran desiderio di entrare nel governo, e non vorrebbero vedere comunisti e socialisti accaparrarsi i posti migliori e tutto il potere”; egli osservava che avendo fatto tanti discorsi infuocati e “pronunciato tante parole temerari [quei partiti] ora dovrebbero rimangiarsene parecchie se accettassero di schierarsi con Badoglio”. Se le rimangiarono...

La tesi di Wieviorka che ridimensiona il ruolo della Resistenza viene più volta contraddetta nel corso del libro: lui stesso ammette che gli invii di armi erano molto contingentati, e altrettanto quelli di alimentari indispensabili per le formazioni combattenti che avevano le loro basi in zone montuose poco ospitali. Riporta le giustificazioni dei militari sulla scarsità della forza aerea disponibile per questi compiti, ma non nasconde che tra le ragioni c’era il timore che fossero poi utilizzate per scopi rivoluzionari. Anche a esponenti della resistenza moderati per giunta si evitava di fornire armi tedesche che cominciavano a essere abbondanti dopo le prime ritirate naziste, per evitare che in futuro la Norvegia o la Danimarca continuassero ad acquistare armamenti dalla Germania una volta sconfitto Hitler. Ma ammette che in molti casi, nonostante l’insufficienza dell’armamento disponibile, molte città si sono liberate da sole prima dell’arrivo delle truppe alleate che, a giudizio del colonnello statunitense Oster “non si sono coperte di gloria nell’Italia del nord”. Per questo riteneva “politicamente disastrosa” la cessazione “di ogni consegna di equipaggiamento ai partigiani nel terribile inverno 1944-1945. “Inviare merci esclusivamente non militari sarebbe altrettanto infelice” dato che nonostante freddo e fame, la prima richiesta dei partigiani era sempre di armi e munizioni. E che le ragioni del mancato invio non fossero “tecniche” lo si capiva dalla considerazione finale che raccomandava di “prendere tutte le precauzioni per impedire che le armi alleate cadessero in mano di persone indesiderabili”.[6]

Wieviorka riporta a questo punto molti altri riconoscimenti dell’importanza delle forze partigiane non solo nella liberazione di un centinaio di città anche grandi come Genova, ma soprattutto al salvataggio di centrali elettriche, fabbriche e impianti portuali. Un rapporto delle forze speciali USA OSS concludeva che “il contributo dei partigiani alla vittoria alleata in Italia [...] ha superato di molto le più ottimistiche speranze.”

Constatando che solo Italia, Francia e Belgio avevano partecipato alla propria liberazione, mentre norvegesi e danesi, avevano accettato rassegnati la presenza nazista fino al maggio 1945, Wieviorka stenta a dare una spiegazione razionale molto semplice: i movimenti più importanti contro l’oppressione nazista sono stati possibili dove nella Resistenza pesava il partito comunista, che lottava anche per una società più giusta e non per ripristinare l’ordine prebellico che era rimpianto da pochi. Sarebbe stato utile un confronto diretto con le realtà in cui il movimento partigiano arrivò alla vittoria con un netto anticipo sulle truppe “alleate” sul territorio (Grecia e Jugoslavia, con l’appendice albanese), lasciate fuori dalla trattazione per criteri di delimitazione geografica, ma le cui esperienze sarebbero indispensabili anche per capire la strategia dell’URSS in Europa, che invece rimane nell’ombra. C’è solo ogni tanto un accenno alla tragica vicenda della Grecia come pericolo incombente su altri paesi, mentre era frutto di un’aggressione a freddo premeditata e ben motivata da Churchill. Vedi su questo il mio Guerra civile in Grecia

Ma a Wieviorka sfugge completamente che la Seconda Guerra Mondiale è stata anche un conflitto interimperialista, che si intrecciava in diversi paesi con movimenti potenzialmente rivoluzionari oltre che con una risposta puramente nazionale alla spietata dominazione nazista: le stesse potenze vincitrici non vanno viste solo per le dichiarazioni di nobili principi, ma anche per tutte le iniziative prese per precostituire un assetto post bellico favorevole, a scapito non solo dei vinti, ma anche degli alleati e dei cobelligeranti.

In realtà all’interno di ogni movimento di resistenza c’erano non solo interessi di classe diversi, ma anche diversi referenti internazionali. Senza cogliere le ragioni dei diversi e spesso contraddittori orientamenti politici che caratterizzano tutte le coalizioni che si schierano al fianco degli angloamericani, è facile lasciare il campo a interpretazioni mitologiche e agiografiche. Oggi che si presentano nuovamente sulla scena europea partiti e movimenti razzisti e xenofobi con responsabilità di governo, è necessario riflettere sulle ragioni che portarono nel corso degli anni Trenta al loro successo in molti paesi; ed è indispensabile capire cosa permise di sconfiggerli con le proprie forze in diversi paesi: in primo luogo la capacità di respingere l’unità intorno ai rottami dei vari partiti conservatori che veniva proposta sistematicamente dai servizi segreti statunitensi e soprattutto britannici. Ed è altrettanto importante fare un bilancio delle partecipazioni subalterne di partiti comunisti a diversi governi postfascisti in cui l’unità formale veniva raggiunta assegnando un peso sproporzionato a esponenti conservatori. Ai nostalgici della “grande unità antifascista del CLN” che dilagano a volte su facebook bisogna ricordare che il CLN assegnava pari peso alle varie componenti senza verifica del loro peso reale, in modo da presentare come necessità oggettiva la rinuncia a obiettivi socialisti, che era imposta invece dalla spartizione in sfere di influenza...

[Sullo stesso argomento si veda sul sito Il PCI al bivio]

(a.m.)

 

[1] Olivier Wieviorka, Storia della Resistenza nell’Europa occidentale. 1940-1945, Einaudi, Torino, 2018

[2][2] Ivi, p. 27

[3] Ibidem

[4] Ivi, p. 350

[5] Ivi, p. 247

[6] Ivi, p. 340

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