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"L’isola dei cani": l’“umanità” intrinseca dei quattro zampe

In un futuro non troppo lontano in Giappone si diffonde una forma di influenza canina. Intimorito da una possibile mutazione del virus che potrebbe colpire anche l’uomo, il sindaco della città di Megasaki, Kobayashi, firma un decreto che prevede l’esilio di ogni cane sull’isola della spazzatura. Sei mesi dopo Atari, il nipote adottivo del sindaco, ruba un piccolo aereo per raggiungere l’isola e ritrovare il suo cane Spots. Precipitato e salvatosi miracolosamente, Atari viene aiutato dal diffidente randagio Chief e dal suo stralunato branco. Lentamente e giorno dopo giorno sia i cani sia Atari scoprono che, dietro il bando di tutti i quattro zampe, si cela un complotto ben molto più grande di quanto sembri.

Dagli esordi ad oggi Wes Anderson è sinonimo di garanzia all’interno del variegato panorama cinematografico. Troppo riduttivo etichettare i suoi lavori come semplici film in quanto ogni sua pellicola è, da una parte, una vera e propria opera d’arte e, dall’altra parte, un’esperienza audiovisiva senza pari. E tale affermazione viene confermata, a distanza di quattro anni dallo splendido Grand Budapest Hotel, dall’ultimo prodotto sfornato dall’estrosa fantasia andersoniana, L’isola dei cani (Isle of Dogs, 2018). Continuando il processo di antropomorfizzazione iniziato nel 2009 con Fantastic Mr. Fox, nel quale prende le mosse una lotta tra intelligenti animali e uomini violenti e ottusi, L’isola dei cani è l’ideale “secondo capitolo” per formare un dittico sul tema. Senza abbandonare quella che è la sua personale, esistenziale poetica e mantenendo intatto quel touch registico fatto di tableau vivant e inquadrature da togliere il fiato, con L’isola dei cani Wes Anderson ha dato vita a una fiaba per adulti in stop motion con la quale è possibile riflettere a più livelli.

Partendo da un contesto sociopolitico abbastanza attuale (come i venti di guerra e paranoia nel continente asiatico) Anderson si immerge nella cultura nipponica in toto: non manca la mise en scène di usi e costumi, parimenti il nono film del regista di I Tenenbaum non è scevro di riferimenti alla cultura pop dell’intero Paese, ai fatti storici e, infine, a una certa ispirazione dai grandi autori come Kurosawa. Da un lato L’isola dei cani attinge pienamente a questa linfa vitale e referenziale, dall’altro lato il contesto e le vicende permettono allo spettatore di aprire, ancor di più, gli occhi sull’inettitudine, a volte annichilente, dell’uomo il quale, spesso – piuttosto che far fronte alle difficoltà utilizzando il raziocinio e ciò di cui dispone – preferisce fare tabula rasa di tutto quello che lo minaccia, sia anche un altro essere vivente. In questo L’isola dei cani diventa satira grottesca dei regimi totalitari purtroppo ancora esistenti in giro per il globo terrestre: dove non c’è libertà di scelta né di parola o azione, a vincere è chi detiene il potere; che sia in modo legale o poco pulito e corrotto, il potere può diventare, se affidato nelle mani sbagliate, un’arma dalle elevate capacità distruttive. Non a caso al personaggio di Atari è affidato il ruolo più importante: quello di tramite, di mezzo per riunire il riunibile, per permettere a due razze, quella dell’uomo e quella dei cani, di tornare a con(vivere) sulla stessa Terra che li ha visti abitanti fin dagli albori dell’origine. Ed è qui, in questa “mission impossible” che si plasma alla perfezione il processo di antropomorfizzazione già citato: nel caos gli uomini smettono di capirsi ma, fortunatamente, a capirli ci pensa l’“umanità” intrinseca dei quattro zampe che, nonostante ogni più becero trattamento, non rinunciano a quella fedeltà nei confronti di chi può garantire una carezza e dell’affetto.

Tra sprazzi di humour, sequenze visivamente accattivanti e momenti davvero ben costruiti L’isola dei cani si conferma come un ulteriore, prezioso e divertente viaggio nel mondo fantastico andersoniano capace sì di sospendere la realtà ma – contemporaneamente – di fare di quella stessa realtà una messa in immagini più leggera, in modo tale da poter fare molto bene al cuore, ai sentimenti e agli occhi dello spettatore.

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