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L’intellettuale radical-chic, il nemico della “Terza Repubblica”

 

di Tobia Savoca

“Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola”. L’aforisma di Goebbels risuona attuale nell’epoca politica del taglio al “bonus cultura”. Il nemico dichiarato della cosiddetta “Terza Repubblica” è l’intellettuale radical-chic. In Francia li chiamano “bobò”, contrazione di “bourgeois-bohème”. Penso di aver letto questa accusa in media due o tre volte al giorno nei commenti di Facebook. Riflettere, spiegare sono diventati un noioso demerito. L’importante è decidere, agire. C’è chi scrive che non sopporta più i “talk show” (“tolk” come li chiamano loro) e preferisce informarsi su Facebook, dove “almeno si capisce qualcosa”. C’è chi preferisce il monologo chiaro, al dibattito confuso.

Condivido l’insoddisfazione per i talk show dove vi è la spettacolarizzazione del dibattito più che la divulgazione di un problema con argomenti, ma la voglia di nutrire la propria coscienza con Facebook penso sia il sintomo di una pericolosa voglia di semplificazione.

L’intellettuale, a sentire queste persone è, per natura, complicato, colto (si spera), di sinistra (“piddino” lo chiamano), espressione di una classe dominante fatta di benpensanti, buonisti, comunisti col cachemire o col rolex. Saviano, Gramellini, Boldrini, Floris sono tra i più bersagliati tra questi graziosi commentatori. Inoltre vengono investiti di tali insulti tutti coloro che sulla rete provano a smentire le bufale razziste o complottiste con semplici commenti ai post.

Non è un caso che questi insulti circolino tramite il web, nuovo spazio di questa “controcultura”, e che siano meno presenti nei vecchi canali di comunicazione quali la televisione.

Al di là dei contenuti politici, e dell’effettiva ed eccessiva presenza di una certa posizione politica, ci si potrebbe chiedere da quando riflettere e proporre una visione della società sia un crimine?

E’ sempre stato così o è una moda attuale? Perché colui che esprime un’opinione, l’intellettuale, dovrebbe essere insultato in quanto tale?

La categoria dell’intellettuale, inteso come insulto, nasce in Francia durante il periodo dell'”Affaire Dreyfus”. Un capitano dell’esercito francese che, in quanto ebreo, era stato accusato, e poi condannato, per aver collaborato col nemico durante la Guerra Franco-Prussiana. Emile Zola pubblica il suo celebre “J’accuse” nel quale denuncia l’antisemitismo della società francese e si schiera col condannato. La società si spacca e il conflitto politico vede opporsi due visioni del mondo: i dreyfusardi, tendenzialmente repubblicani, convinti della sua innocenza, e gli antidreyfusardi che includevano tutta una serie di movimenti anti-repubblicani di destra, anti-parlamentari nazionalisti e antisemiti, spesso corrispondenti alla classe dirigente che era stata spazzata o scartata dalla Terza Repubblica Francese. Per la cronaca, si era trattato di un errore giudiziario e il capitano ebreo era stato utilizzato per coprire un altro gerarca dell’esercito.

Ebbene in quel periodo la parola “intellettuale” venne usata dagli antidreyfusardi per accusare i dreyfusardi.

“Spazzatura fatale prodotta nel tentato sforzo della società di produrre un’élite” secondo l’articolo de “Le Journal” del 1898 di Maurice Barrès. Oltre all’originalità del nome della testata, c’è da sottolineare la coincidenza di vedute tipica di coloro che scrivono nell’omonima testata italiana (Il Giornale).

Nel Mein Kampf, Adolfo attribuisce agli Ebrei, che di certo non gli stavano simpatici, la capacità di essere degli “intellettualoidi” poiché incapaci di produrre una cultura propria e, quando si riferisce ai tedeschi, afferma che “più intellettuali sono stati i nostri uomini di stato, più deboli furono molti di loro nei risultati concreti”. La qualità diffamante di intellettuale è da lui attribuita a coloro che erano reputati colpevoli dei mali della Germania, vittima di un complotto internazionale.

L’idea che attraversa un secolo e mezzo è che l’azione debba guidare la società, non la riflessione, non il parlamentarismo. A proposito del Fascismo, Bobbio scriveva che “Con l’idea del primato dell’azione procede di pari passo il disprezzo per gli intellettuali in quanto ceto a sé stante che pretende di porsi al di sopra della mischia”.

L’attualità politica italiana continua a riproporre questa immagine, attraverso un linguaggio ed un discorso che si sintetizza nella vecchia espressione di Tremonti “con la cultura non si mangia”, e che trova eco nelle file della destra populista di Grillo che gli intellettuali li identifica come “casta”.

L’ignoranza è esaltata come altra faccia del “sapere popolare”.

Tutto questo astio e disprezzo nascono dalla qualunquista insofferenza della gente nei confronti di chi, generalizzando, attribuisce la colpa dei propri mali a coloro che hanno il privilegio sprecato di potere possedere conoscenza, senza averla saputa mettere a profitto della società.

D’altro canto, appare chiara la responsabilità politica di tutti coloro che, a torto, sono stati ritenuti detentori di una politica di sinistra, e sono stati sordi alle richieste di giustizia sociale provenienti dalla gente comune che avrebbero dovuto rappresentare. Trincerati dietro una difesa manichea di valori trasmessi come spot, incapaci di aiutare gli ultimi attraverso organismi territoriali, la classe dirigente che va da D’Alema al centro democratico ha deluso una popolazione intera, già peraltro educata all’anti-comunismo, e, ancora peggio, essa si è arrogata il diritto di rappresentare la “sinistra”, senza averne i contenuti e le proposte.

Chomsky sostiene che quelli che i media definiscono intellettuali non sono altro che i preti e i catechisti dell’ideologia o pensiero dominante mondialista e la reazione della gente contro questi ultimi è una cosa sana. Il linguista americano però forse sopravvaluta la capacità della gente di discernere e riconoscere quanto si è già prodotto nel corso della storia in nome del complotto internazionale e delle teorie di sostituzione etnica.

In mezzo a questo scempio esiste ancora un piccolo e poco conosciuto gruppo di intellettuali che si pongono sia contro il pensiero dominante, sia contro la reazione populista di destra. La strada per farsi conoscere ed avere visibilità nello scontro politico è impresa ardua ma dovranno, per il bene di tutti, farsi vedere, farsi riconoscere ed esporsi.

E ancora più dura risulta l’impresa, dato che i social appiattiscono alla banalità di un meme o a quella di un tweet, discorsi che meritano un dibattito ed una diffusione più articolata e complessa. In fondo la ragione del successo del nuovo populismo sta nell’assenza di una opposizione in termini di comunicazione sulla rete: il nuovo sentimento nazional popolare dei sempre più numerosi simpatizzanti di M5S e Lega ha attecchito nelle “nuove piazze” virtuali prima di diventare fenomeno politico. Il facile accesso acritico dell’informazione da l’impressione a tutti di poter essere un po’ intellettuali. E’ li che la battaglia è stata persa e continuerà ad esserlo fino a quando non si educherà, sin dalla tenera età, allo spirito critico nei confronti delle informazioni.

La sconfitta sarà inevitabile se non si troverà una narrazione del mondo alternativa alla politica della paura e finché questa narrazione alternativa non verrà fatta attraverso i metodi e le tecniche divulgative moderne con slogan semplici e virali, che possano essere alla portata di tutti.

Il ruolo degli intellettuali è fondamentale in qualsiasi società, poiché permette di mantenere vivo il dibattito su temi centrali e guidare i concittadini a discernere nel flusso brutale di informazioni cui è attualmente sottoposto.

Barbara Collevecchio scrive “Vorrei precisare che intellettuale è chiunque usi l’intelletto, intelligenza deriva da “intelligere”, cioè saper discriminare: ad esempio una persona che usa l’intelletto dovrebbe essere in grado di discriminare se una notizia è una bufala o verità, dovrebbe essere in grado di discriminare tra complottismo di bassa lega e realtà. Un intellettuale è una persona che usando l’intelletto è capace di fare un servizio pubblico: di dimostrare ad esempio che credere nelle scie chimiche, nei protocolli di Sion, nei microchip e in altre fandonie, è non solo irrazionale ma pernicioso. Un intellettuale (ovvero una persona che usa l’intelletto) è qualcuno che fa cultura e la diffonde, come Dario Fo, ad esempio. ”

E’ evidente che affidare ad un gruppo ristretto di persone il monopolio del sapere, è quanto di più controproducente possa esserci per la nostra società. Il disastro politico a cui si assiste in questi giorni obbliga ad un esame di coscienza tutti coloro che hanno sottovalutato l’importanza della cultura e delle idee, ma anche dei nuovi canali di comunicazione.

Il movimento di diffusione delle idee, di volgarizzazione della cultura, a parte dei rari esempi di servizio pubblico è completamente sfuggito di mano dalla classe dirigente. Ed intanto la voglia di decisionismo, di fatti, di “tagliare la testa al toro”, di azione, emergono come pulsioni schizofreniche dai commenti sui social.

Di fronte a tutto questo, riflettere significa analizzare, studiare, capire le differenze e le sfumature. Ci vogliono tempo e coraggio.

E’ un percorso più lungo e difficile rispetto alla scorciatoia del dare una soluzione immediata scandita dai sentimenti più forti dell’animo umano: odio e paura.

Unico antidoto da sempre: l’amore per l’educazione, per la divulgazione scientifica, descrittiva e analitica, non dietrologica o complottista. Quella degli Angela, non quella dei Voyager, quella che ha dietro la scienza e per destinatario il cittadino, non quella che si fonda su allusioni e per destinatario il suggestionabile consumatore.

Il complottista pensa di aver capito tutto, si sente scaltro perché ha una risposta semplice e che lo esonera da ogni responsabilità. Quindi è un diffusore di inazione civile e politica, affidandosi alla proposta politica cosiddetta populista.

Il cittadino intellettuale si informa ed esercita lo spirito critico perché crede che le cose possano cambiare. L’amore per la cultura diventa cultura dell’amore.

 
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