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L’ingraismo

Non esiste nessuna opera (che io sappia) specificamente dedicata alla corrente ingraiana del Pci e questo ha alimentato un immaginario non sempre corrispondente alla realtà storica. Ad esempio, si parla spesso dell’ingraismo come una sorta di superamento del togliattismo: lo scrive esplicitamente Alfredo Rechlin nello speciale del “Manifesto” dedicato ai 100 anni di Ingrao, sottolineando come Ingrao si distacchi da Togliatti per la diversa lettura del caso italiano (ci torneremo su). In realtà, l’ingraismo fu sempre una variabile interna del togliattismo.

Infatti, esso fu una delle tre grandi correnti in cui si divise il gruppo dirigente togliattiano, e già qualche anno prima della morte del suo leader. Emarginati definitivamente i secchiani, la nuova generazione di dirigenti del partito, cresciuta sotto l’egida del “Migliore”, si divise fra una destra ispirata da Giorgio Amendola (Chiaromonte, Valenzi, Napolitano, Bufalini, Macaluso, Grifone, Alinovi, Perna), un grande centro guidato prima da Longo, poi da Berlinguer (Tortorella, Quercioli, Giuseppe D’Alema, Lama, Dozza, Zangheri, Imbeni, Flamigni, Serri, Seroni, Tatò, Cinciari Rodano, Boldrini, Natta, Pecchioli, Alicata, Cossutta, Iotti e Pajetta, Berlinguer, Ariemma, ecc.) ed una sinistra guidata, appunto da Ingrao (Reichlin, Barca, Bassolino, Rossanda, Magri, Pintor, Occhetto, Chiarante, Ledda, Luporini, Lombardo Radice).

Magri, nel suo “Il sarto di Ulm” sostiene che quella ingraiana non fu una vera e propria corrente perché, almeno sino al XII congresso (1969) non aveva proprie riunioni separate in cui concordare le posizioni da esprimere negli organi di partito, ma era una sorta di confluenza spontanea ed occasionale che, di volta in volta, alcuni dirigenti trovavano, magari grazie al prestigio personale di quello che le voci di corridoio indicavano come l’erede di Togliatti. Non c’è ragione di dubitare di questa versione di Magri, perché in effetti l’ingraismo fu più un’area culturale che una vera e propria frazione di partito (molto di più lo era la destra amendoliana).

Erano anni in cui una tendenza interna a un partito, soprattutto nel Pci, si caratterizzava, prima e più che con la fedeltà verso un leader, per essere una determinata cultura politica e l’ingraismo fu una delle principali culture politiche non solo del Pci, ma dell’intero sistema politico. Dunque, in una certa misura, è opportuno distinguere fra la corrente ed il suo leader, anche perché contributi importanti alla definizione di questo filone ideologico vennero da altri come Reichlin, Barca, ma soprattutto la Rossanda e, successivamente, Magri.

All’origine c’è il dibattito Amendola-Ingrao dei primissimi anni sessanta sulla natura del capitalismo italiano ed i suoi mutamenti. Amendola, più ortodossamente togliattiano e con il supporto di Pietro Grifone, continuava a ritenere quello italiano un capitalismo arretrato, fortemente condizionato dalla rendita ed incapace di superare i problemi storici del paese, a cominciare dalla questione meridionale, la riforma agraria, una compiuta secolarizzazione ecc, per cui al Pci spettava il compito di creare una coalizione con i settori più avanzati della borghesia, per realizzare un regime di democrazia progressiva, che doveva portare a compimento la rivoluzione borghese ed aprire la strada al socialismo. E, in particolare, allearsi con il capitale industriale (il partito del profitto), per battere la rendita.

Ingrao, al contrario, sosteneva che le evoluzioni del capitalismo monopolistico, ormai avevano inglobato la rendita rendendola funzionale a sé e che al Pci spettava, semmai, il compito di dar vita ad una coalizione sociale che imponesse un diverso modello di sviluppo.

La cultura politica ingraiana era certamente molto più innovativa di quella amendoliana, ma basta questo per dire che si sia trattato di un superamento del togliattismo? Che il capitalismo italiano stesse subendo una trasformazione che lo rendeva sempre più interconnesso con il capitalismo internazionale era una evidenza che Amendola si rifiutava di vedere, ma la sua fedeltà a Togliatti era più letterale che di sostanza. Mentre Ingrao, che cercava di applicare un metodo di analisi che fu di Togliatti (rispetto al quale mostrava una qualche sensibilità in più per le scienze sociali) ai mutamenti in atto era nello spirito molto più coerentemente togliattiano del primo. La cornice restava quella delle riforme di struttura, del primato del partito (pur con maggiore sensibilità verso le forze sociali), della solidarietà del campo socialista ecc.

D’altro canto, il merito delle sue proposte restava in una sconfortante vaghezza: il nuovo modello di sviluppo restò a lungo un seducente slogan privo di contenuto positivo, salvo che per il diverso ruolo attribuito al sindacato unitario, che era la novità di quella stagione di lotte sociali. Allo stesso modo in cui, la trasmissione della domanda politica restava profondamente condizionata dal ruolo degli apparati burocratici di partito o di sindacato. Nell’ingraismo manca una teoria dell’organizzazione e prevale un’impostazione di tipo idealistico per cui la soggettività della burocrazia come soggetto a sé è rimossa.

Come altrettanto nel vago restava la proposta politica che avrebbe dovuto assicurare lo sbocco delle lotte per un nuovo modello di sviluppo- Amendola proponeva l’unificazione delle forze socialiste (persino del Psdi!) ed un rapporto preferenziale con il Pri, individuato come rappresentante della “borghesia produttiva”, per dar vita ad una sorta di fronte popolare rivisitato e conquistare la maggioranza con una formula laico-socialista. Ingrao, al di là del Psiup, non era in grado di indicare alcun alleato, salvo una imprecisata sinistra cattolica che, in qualche modo, avrebbe dovuto saldarsi al Pci.

Mentre dava per perso il Psi (del Psdi e del Pri neanche a parlarne) a causa della sua partecipazione al centro sinistra, governo della borghesia dei monopoli. La traduzione di tutto questo sul piano istituzionale, fu che, nelle elezioni del Presidente della Repubblica del 1964, mentre Amendola sostenne la candidatura, poi vincente, di Saragat, Ingrao e i suoi, con il Psiup tenevano piuttosto per Amintore Fanfani. Indubbiamente Saragat non fu un buon Presidente, ma non c’è ragione di pensare che Fanfani sarebbe stato migliore, anzi, a giudicare dal suo percorso successivo, c’è da immaginare che sarebbe stato un Presidente molto più autoritario e sicuramente più confessionale (avrebbe firmato la legge sul divorzio nel 1970?).

Si può anche pensare che, nella temperatura di quegli anni, Ingrao pensasse ad una trasformazione sociale del paese che non passasse attraverso la conquista della maggioranza parlamentare, ma che il fulcro dell’azione dovesse essere la formazione di un sistema di contropoteri, in grado di condizionare e piegare l’azione di governo, ma questo non lo ha mai detto, per lo meno non lo ha mai detto esplicitamente, ed, in ogni caso, salvo che una teorizzazione molto moderata dei consigli di fabbrica e la proposta della “repubblica delle autonomie” non è mai venuto nulla di concreto.

Non stupisce, quindi, che un’accusa ricorrente nel Pci ad Ingrao ed ai suoi seguaci fosse quella di“Intellettualismo” e di astrattezza politica, accusa non del tutto immeritata, anche se, spesso, strumentale. In politica le analisi sono importanti (e gli ingraiani ne facevano di molto raffinate, anche se non sempre giuste e spesso viziate ideologicamente), ma non sono tutto: la cosa più rilevante è capire il punto intorno al quale si gioca la partita. C’è sempre un punto focale dello scontro, rispetto al quale tutti gli altri passano in secondo piano: nel 1946 era la Repubblica, nel 1949 l’adesione alla Nato, nel 1953 la legge truffa, nel 1960 un governo retto dai voti determinanti del Msi, nel 1974 il referendum sul divorzio eccetera. Si badi che non è affatto necessario che sia effettivamente il punto decisivo dei rapporti di forza, basta solo che sia percepito come tale, perché poi il vincitore su quel punto verrà ritenuto il vincitore della partita. Magari, in un secondo tempo la vittoria sarà ridimensionata, perché emergeranno altri nodi, ma sul momento è quello che conta.

Ingrao ed i suoi non furono mai in grado di identificare il punto focale e di fare una proposta adeguata. Con il sopravvenire del 1968, la corrente ingraiana si divise fra un’ala “ortodossa” ed una radicale (Rossanda, Natoli, Pintor, Magri, Castellina cui si aggiunse, poco dopo Aldo Natoli) che tentò con maggiore decisione il superamento del togliattismo, ma con risultati assai modesti se, alla fine, nel 1976 la proposta politica dell’allora Pdup per il Comunismo, di cui era segretario Magri, fu il “governo di sinistra” sorretto da una coalizione fra Pci, estrema sinistra, Psi e laici, cioè esattamente la proposta del fronte laico-socialista che dieci anni prima era stato di Amendola e contro il quale gli ingraiani avevano tuonato. Ma questo è un tema che merita una trattazione a sé.

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