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 Home page > Attualità > Economia > L’illusione del coronabond e il reset che verrà

L’illusione del coronabond e il reset che verrà

Ieri su Repubblica è stato pubblicato un editoriale del professor Roberto Perotti, dal titolo inequivocabile: “L’illusione dei coronabond”. Tutto verte intorno a quella che Perotti definisce “mancanza di realismo”, e che si può considerare più propriamente come una commedia degli equivoci: la distinzione tra manovra espansiva e solidarietà.

Riguardo alla manovra espansiva, scrive l’economista:

 

[…] tutti i Paesi europei stanno attuando o attueranno manovre espansive e, sorprendentemente, la Germania più di tutti: come riporta l’Osservatorio dei conti pubblici italiani, tra il 4 e il 10% del Pil, oltre a garanzie statali alle imprese fino al 35% del Pil. Una cifra enorme.

Quindi, nessuno impedisce all’Italia di attuare a sua volta una espansione, visto che il patto di stabilità è stato sospeso, come del resto previsto dai trattati e dal senso comune in circostanze come questa. Al tempo: “nessuno” pone ostacoli all’espansione fiscale di un paese ad alto debito tranne il mercato dei capitali, se non convinto della solvibilità futura.

E qui veniamo al concetto di solidarietà, che significa trasferimenti dai paesi con meno debito a quelli con più debito. Ipotizziamo di emettere i famosi o famigerati coronabond:

Questi sono titoli emessi congiuntamente dai Paesi europei, garantiti individualmente e in solido da ogni Paese: se un Paese non paga la propria parte, ogni altro Paese può essere chiamato a pagare per il Paese insolvente. Data la situazione attuale, è di fatto la Germania che garantisce per l’Italia, non viceversa.

Perotti prosegue l’argomentazione analizzando la destinazione dei proventi e il costo del debito collettivo. Se i primi vengono ripartiti in proporzione al Pil, allora tanto vale che ogni paese emetta proprio debito nazionale. Il vantaggio dell’emissione comune, per l’Italia, consisterebbe nel minore costo del nuovo debito collettivo, e questo sarebbe il “sussidio” a nostro favore.

Bene. Ora aprirò un inciso piuttosto ampio: cosa vuole l’Italia, e non solo lei? Azzardo: non far crescere troppo il debito nazionale e contenere il costo degli interessi? Quindi vuole debito mutualizzato. Cosa vogliono i paesi a basso debito? Non accollarsi debito altrui e dimostrare che la loro “buona gestione” paga nei tempi difficili. È visione naïf? Miope? Forse sì, date le circostanze. Ma vi prego, riflettete: a ruoli invertiti, voi che pensieri avreste avuto?

Ma procediamo col mio inciso. Proviamo a far di conto. Ipotizziamo che l’ESM/MES venga utilizzato per emettere bond o linee di credito senza condizionalità, tali da permettere ai singoli paesi di tirare fondi sino al 2% del Pil, come qualcuno ipotizza. Eccovi l’aritmetica:

 

I don't get the logic of granting ESM credit lines of 2% of GDP. The main advantage for Italy would be to reduce interest cost on €34bn borrowing from 1.5% let's say to 0% (to be generous) this means saving €510 *million* per year, ie 0.03% of GDP. Where is the relief? https://twitter.com/MartinGreive/status/1244538700110970880 …

 
 
 
 

Vedete cambiare qualcosa di sostanziale, per noi? In altri termini, “where’s the relief“? Ecco, questa è la domanda. Ma allora che vuole, esattamente, l’Italia? A mia sensazione, vuole che questo debito semplicemente non sia considerato come tale.

Cioè che sia monetizzato dalla Bce, in modo esplicito e da subito. Questo è ovviamente impossibile, per senso comune prima che per trattati. La Bce potrebbe comprare il debito collettivo nell’ambito del suo programma PEPP, e attenderne la (lunga) scadenza. Raggiunta la quale, si vedrà. Ma non si può immaginare che, qui e ora, l’Eurotower proceda ad acquistare ed estinguere quel debito con un tratto di penna; di conseguenza, le metriche di debito si appesantirebbero anche col cosiddetto eventuale eurobond, pro rata. Con un piccolo, pulviscolare beneficio nel costo per interessi.

Il debito italiano, e quello di molti altri paesi, sarà sostenibile dopo la crisi? Difficile a dirsi, ma se un paese fatica con debito/Pil al 135%, a maggior ragione faticherà con quel rapporto al 160-180%. Che accadrà, a quel punto? O si cresce oppure, in prima battuta, avremo il solito aumento di imposizione domestica, soprattutto patrimoniale.

Se non bastasse, interventi di ristrutturazione del debito pubblico sarebbero inevitabili. Ne sarebbero coinvolte anche altre banche europee e globali, ma nel frattempo le medesime avrebbero potuto alleggerirsi vendendo alla Bce.

Ma per ora non voglio disegnare scenari. Quello che mi premeva era cercare di capire a cosa potrebbe puntare l’Italia in questo scenario di esplosione planetaria di debito. Vuole trasferimenti a fondo perduto? Non ufficialmente. Vuole un sollievo sul costo del debito? Ma servirebbero ben altre cifre, per avere un vero beneficio. Forse ha ragione il commissario italiano Paolo Gentiloni quando parla di “voli pindarici” sulla mutualizzazione di debito.

Per ora, l’Italia e l’Eurozona hanno ottenuto un’espansione del bilancio della Bce che equivale a maggior deficit per oltre il 7% del Pil dell’area euro. Questo vuol dire che ogni paese, nell’ambito del proprio programma di espansione fiscale, può contare di avere le “spalle coperte” dagli acquisti dell’istituto di Francoforte. Non è poco ma resta il punto: in questo modo, i singoli stock di debito nazionale restano identificabili, ciascuno con la propria sostenibilità da valutare a fine tempesta.

Cosa si può fare, allora? Più realisticamente, lavorare al bilancio pluriennale della Ue, ad esempio includendo voci di bilancio sanitario collettivo, anche se pure in quel caso i paesi maggiori contributori puntano i piedi. Ma potrebbero convincersi che da un continente ridotto a cumulo di macerie non trarrebbero grandi benefici.

Piuttosto, attenzione ad un altro tipo di illusione che mi pare stia mettendo radici da noi, cioè la convinzione che da questa vicenda si possano gettare i semi di un “nuovo modello” di sviluppo economico e sociale. Tutto lecito, per carità. Mi verrebbe da dire “se non ora, quando?”, per allinearmi a noti canoni di comunicazione. Il problema è che ognuno guarda questo ipotetico reset con le proprie lenti.

E così, per alcuni sparuti “moderati” che sognano per domani almeno una mitigazione della burocrazia e maggior libertà di intrapresa, lungi dall’essere etichettabili come macellai sociali, avremo un’onda di piena di sdegnati antiglobalisti ed antiliberisti nel paese del socialismo surreale, che tenteranno di realizzare l’aureo precetto “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni” scatenando la caccia al “ricco” che fa massa critica depredabile (cioè al grande aggregato della classe media) ed alluvionando il paese di certificazioni necessarie anche per allacciarsi le scarpe.

Ovviamente, tutto ciò avverrà in un clima di gride manzoniane con la solita Fossa delle Marianne tra obiettivi e risultati, dentro la quale l’italica anomia prospererà, dall’economia di vicolo al monopolio/concessione passando per l’evasione fiscale, con l’intermediazione parassitaria di una oligarchia mista pubblico-privata. Sarà la borsa nera del ventunesimo secolo. Quale miglior nemesi per il paese che guarda costantemente nel retrovisore cercando di cogliere dietro le macerie fumanti della storia lo splendore di un impero?

Ma spero di sbagliare, ovviamente.


Lettura complementare consigliata: “Da un lato, l’intervento necessario è di tipo assicurativo. Ma shock simmetrici, per loro natura, non sono diversificabili tra paesi”. La ferrea logica, non solo economica, di Tommaso Monacelli.

 

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