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 Home page > Tribuna Libera > L’autodeterminazione dei popoli e la lezione scozzese

L’autodeterminazione dei popoli e la lezione scozzese

Molti commentatori del recente referendum scozzese hanno osservato che esso è stato la consacrazione definitiva del principio dell’autodeterminazione dei popoli. Lo stesso principio è invocato dai catalani, dai baschi, dai corsi ecc. Ugualmente allo stesso sacrosanto principio si appellano gli ucraini rispetto ai russi, ma che non sono affatto disposti a riconoscerlo ai russofoni delle loro provincie orientali. Ed è tutto un convenire, da una parte e dall’altra degli schieramenti, sulla intangibilità di questo principio (salvo che per i palestinesi che, non si capisce perché, non sarebbero titolari dei diritto di darsi un proprio ordinamento statale, su un qualche territorio dotato di qualche riconoscibilità). E noi non possiamo che convenire, ma ci poniamo un problema: quale è il nesso che passa fra autodeterminazione e nazione?

Perché, curiosamente, molti che sono pronti a difendere a spada tratta i diritti di baschi, catalani, curdi e palestinesi, poi negano ogni valore al principio nazionale ed alla conseguente soluzione dello stato nazionale, come se curdi, baschi, catalani ecc non stessero battendosi per un proprio stato nazionale.

Perché la questione è quella di stabilire chi è il soggetto titolare di questo diritto all’autodeterminazione. Insomma cosa è un popolo? E’ pensabile un popolo al di fuori del concetto di nazione?

So bene che esistono stati plurinazionali come la Svizzera, la Russia, ancora oggi, la Cina ed, in fondo, non esiste nessuno stato nazionale puro che non ospiti al suo interno minoranze nazionali, per quanto frammentate e scarsamente numerose, ma nessuna Costituzione parla di “popoli” e tutte, con forme varie, parlano al singolare di popolo, quasi che l’identità etnico-linguistica sia irrilevante. Ma questo è un artificio giuridico spesso contraddetto dallo stesso testo costituzionale nel quale la “nazione” rispunta in altre parti (ad es gli art. 9, 67, 87 della costituzione italiana).

Tutte le costituzioni si basano su un delicato equilibrio fra i principi di inclusione e di rispetto delle minoranze nazionali, per il quale i cittadini di diverso ceppo linguistico, etnico ecc. hanno diritto alla tutela delle proprie specificità culturali, ma appartengono allo stesso popolo, godono degli stessi diritti ed hanno gli stessi obblighi di lealtà nei confronti del proprio Stato. Mentre nessuna Costituzione riconosce il diritto alla secessione.

Questo fragile compromesso si è formato storicamente in modo piuttosto empirico, sulla base di un patto implicito: ogni stato si costruiva intorno a una nazionalità dominante che concedeva a quelle minoritarie un livello variabile di garanzie, in cambio del riconoscimento della lingua e della cultura dominante e della lealtà verso lo Stato.

Dunque, se lo Stato moderno si è concretato come Stato-nazione, anche il popolo ha preso corpo come popolo-nazione, di cui le minoranze etnico-nazionali diventavano una variabile interna.

Si è discusso a lungo - sino agli anni venti del secolo scorso- su cosa fosse una nazione e, di conseguenza, su chi fosse titolare del diritto a reclamare l’autodeterminazione sino alla proclamazione in soggetto sovrano. Come è noto, la scuola tedesca fondò l’idea di nazione sul vincolo di sangue e sull’affinità etnica, mentre quella francese (e italiana) la fondarono sull’identità culturale e sulla “scelta” di un popolo di costituirsi come tale (la nazione è un “plebiscito di ogni giorno” disse Paul Renan). Per quanto ci sia stata una qualche ripresa degli indirizzi basati sul dato etnico-naturalistico, non c’è dubbio che, nel tempo abbia sostanzialmente prevalso l’indirizzo culturalista francese che è andato ben oltre i limiti iniziali ed il dato soggettivo è andato via via soverchiando quello “oggettivo”.

Infatti, per quanto il modello francese pensasse all’identità nazionale come ad un dato generato storicamente e modificabile nel tempo, postulava comunque un insieme di requisiti preesistenti alla costituzione del popolo in nazione (comunità di lingua, religione, tradizioni storiche, cultura ecc.). E non sono stati affatto infrequenti i casi di identità nazionali sorte sulla base di miti o tradizioni del tutto immaginarie ed inventate (e la Scozia, per la verità, ha inventato una buona parte dei suoi simboli nazionali a cominciare dal tartan e dal kilt la cui origine è stata abbondantemente retrodatata). Questo ha ridimensionato fortemente i dati oggettivi della identità nazionale, sottolineando quelli esclusivamente soggettivi della volontà di essere popolo distinto da altri.

Di fatto, se vogliamo esser pratici, sono nazioni riconosciute tutte quelle che hanno avuto la forza militare di esserlo: non ci sono precedenti di stati nazione che non siano sorti da guerre interne o da sconfitte militari subite dall’esterno.

Se per circa un settantennio (dal 1919 al 1991) la carta geografica europea è rimasta grosso modo la stessa, caratterizzata da un certo numero di stati nazionali, questo è dipeso dal fatto che ciascuno stato nazionale ha composto un proprio spettro interno di interessi sulla base di norme giuridiche, negoziati sindacali, tutele commerciali ecc. che hanno visto nello Stato il principale soggetto aggregatore.

Successivamente l’urto della globalizzazione e il modo con cui si è (o meglio NON si è) costruita l’unità europea, ha delegittimato gli stati nazionali, allentandone i vincoli interni, ma non ha costruito nessuna altra identità culturale o “campo magnetico” di interessi che li sostituisse. E questo ha dato il via ad un processo di frammentazione a catena.

Ma, prima di trarre le conseguenze di tutto questo (di cui riparleremo) chiediamnoci una cosa: siamo sicuri che il ritorno all’Europa medievale, composta da una miriade di città libere, staterelli, feudi, privilegi vescovili, ecc sia davvero auspicabile?

Riparliamone.

 

Foto: Eugène Delacroix - La liberté guidant le peuple

Questo articolo è stato pubblicato qui

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