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L’ateismo in Egitto

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La rivoluzione del 2011 in Egitto, oltre a grandi cambiamenti politici, ha fatto emergere un fenomeno rimasto sempre sotto traccia nel mondo arabo: la non credenza. Soprattutto grazie ai social network sono sempre di più le persone che professano apertamente il proprio ateismo. Ma non sono mancati casi di arresti e condanne, sia sotto la presidenza dell’islamista Morsi sia con il generale Al-Sissi, che ha represso con la forza i Fratelli Musulmani ma non ha modificato l’approccio confessionale della Costituzione.

C’è chi pone anche la questione del diritto d’asilo per i non credenti che, come i cristiani, subiscono vessazioni e condanne nei paesi musulmani, ma non hanno uguale risonanza né attenzione dalla comunità internazionale. Sebbene qualcuno, come recentemente ha fatto Ernesto Galli Della Loggia su Il Corriere della Sera, lamenti addirittura una “indifferenza che uccide”, dando la colpa anche alla secolarizzazione. Cosa che nei fatti non sussiste, se non in una rappresentazione distorta e vittimistica a uso dei più clericali. È vero il contrario: è anche grazie alla secolarizzazione e alla diffusione di una mentalità universalistica che promuove i diritti umani — a prescindere da tifoserie confessionali — che oggi, molto più di ieri, si parla di minoranze religiose perseguitate, c’è indignazione ed empatia per le loro condizioni e ci si attiva per tutelarle (e lo fanno anche, guarda caso, i tanto vituperati atei).

Degli increduli invece non si parla praticamente mai, né ci sono governi che ad esempio mettono a disposizione aerei per trasportare rifugiati o lanciano appelli e attivano canali diplomatici contro la persecuzione. Per sentire qualcosa nella nostra lingua dobbiamo sintonizzarci su una emittente svizzera: il programma Laser di Rete Due della Radiotelevisione Svizzera Italiana ha dedicato il 21 luglio una puntata all’ateismo in Egitto, condotta da Marco Alloni.

Dichiararsi atei in Egitto è tuttora un tabù più grave dell’omosessualità, perché è ritenuto un’offesa alla religione islamica che imbeve profondamente la società araba. Laser intervista Munir Adib, che nel suo libro I seguaci dell’ateismo nella società musulmana per la prima volta ha tratteggiato il fenomeno con piglio da studioso. Il numero degli atei in Egitto “non è limitato”, anche se non ci sono stime precise. Paradossalmente, fa notare, la conquista provvisoria del potere da parte degli islamisti ha portato a una diminuzione della pratica religiosa (ad esempio nel seguire il digiuno del Ramadan). Perché i Fratelli Musulmani hanno fatto un “grande errore”: “Non hanno fatto una chiara distinzione tra il discorso politico e il proselitismo”. Il loro fallimento politico si è quindi riverberato sul piano religioso.

Abid si professa credente, ma ha usato un approccio diverso da Mustafa Mahmud, che qualche decennio fa affrontò l’ateismo ma esortò ad abbandonarlo: “Non ho voluto convertire gli atei alla fede ma soprattutto ascoltarli, capire le loro idee, riportarle nel mio libro”, intervistandone molti e raccogliendone la testimonianza diretta, spiega. L’ateismo in Egitto è diventato visibile solo dopo il 2011 perché la protesta contro il sistema politico ha coinvolto “tanti altri aspetti della nostra società”, quindi molti hanno contestato i valori religiosi e sono entrati “nella fase del dubbio”. Non a caso tra i movimenti più attivi fin dall’inizio della rivoluzione c’erano proprio quelli formati da giovani laici. Per la prima volta, sebbene “fossero già presenti nella società egiziana”, i non credenti “hanno cominciato a esprimere se stessi in modo chiaro ed esplicito” poiché “tutti hanno cominciato a sentirsi nel diritto di esprimere le proprie opinioni”.

Non ci sono dati ufficiali sul numero di atei e agnostici: “Forse questo dipende da una ragione religiosa: [...] la nostra società ha infatti un problema psicologico nel riconoscere che esiste l’ateismo”. A complicare le cose, il fatto che molti non si dichiarano: anche tra le élite e i politici, ma non ne parlano per il rischio di subire critiche, perdere potere e lavoro. Altro aspetto “importante” è che “la maggioranza degli atei sono giovani, 27-28 anni, ragazzi che studiano in università prestigiose”, “alcuni di loro fanno il master e la maggior parte di loro sono molto colti”.

Tra le ragioni che portano all’ateismo, spiega Abid, c’è l’inadeguatezza da parte della famiglia che “non è in grado di rispondere alle domande religiose dei figli”. Racconta l’aneddoto di una ventunenne, che studia legge all’università sunnita di Al-Azhar. Per lei l’ateismo è stato “un percorso progressivo” dal liceo: “Chiedevo spesso a mia madre diverse cose sulla religione e lei mi rispondeva sempre con questo versetto del Corano: ‘Non chiedete queste cose, se le capite vi faranno del male’”. L’educazione rigida e schematica impartita da scuola, famiglia e moschea sicuramente non aiuta. Secondo Abid, la differenza rispetto agli atei occidentali sta nel fatto che quelli egiziani sono per così dire “religiosi”: racconta di alcuni che si recano a sedute sufi e che subiscono il fascino di queste pratiche.

Quando si arriva al punto dolente della libertà degli atei e delle condanne per apostasia, Abid mostra purtroppo il suo lato più rigido. “Verrà un giorno in cui si potrà professare liberamente atei?”, gli chiede l’intervistatore. Stavolta il ricercatore sostiene che la colpa sia degli atei, descritti in maniera caricaturale: “Hanno creato una sorta di esilio sociale psicologico tra loro e la società: per cui essere ateo, qui, equivale in qualche modo a non fare altro che insultare le religioni, Cristo, Dio, tutto”. E arriva persino a giustificarne la repressione: “Io, come stato, come costituzione, sono obbligato a controllarti con la legge”. Sarebbero quindi loro a cercarsela. È vero che c’è una componente di atei che passa il tempo, specie sui social network, a criticare aspramente la religione. Ma purtroppo sfugge che, in ambito islamico, la semplice espressione della miscredenza comporta giocoforza affermare che Allah non esiste e che il Corano non è un libro sacro: ciò già di per sé viene giudicato offensivo e blasfemo, quindi aspramente condannato.

Il confine tra espressione di ateismo e offesa alla religione è molto labile, per molti inesistente. Ciò costringe quindi al silenzio i non credenti, per paura di essere colpiti. Come spiega Sherif Abuhmila, un egiziano che ha vissuto 10 anni negli Usa ma ha iniziato ad essere ateo già nell’adolescenza in Egitto, intervistato da Laser dopo Abid. Abuhmila racconta in prima persona la condizione difficile in cui vive. “Non ho molta libertà per esprimere i miei convincimenti religiosi”, spiega, tanto che solo parenti e amici più stretti sanno che è ateo.

Dal 25 gennaio 2011 in Egitto sono stati riportati 63 casi di “apostasia” (59% in famiglie di origine musulmane, 41% cristiane), riporta il conduttore, con una impennata del 100% sotto Morsi. Questa è la tipica accusa che colpisce non solo l’insulto alla religione ma anche la semplice espressione di dubbi in merito all’esistenza di Dio. Alla domanda su cosa pensa delle persone che fanno “un così facile accostamento fra espressione del proprio ateismo e vilipendio della religione”, Abuhmila risponde di provare “pietà” per loro. Perché “questo è il modo in cui viene insegnato loro il Corano”: “devono prendere alla lettera tutto quello che è scritto” perché “si tratta della parola di Dio”. “Quello che lì è scritto è da considerarsi fuori da ogni discussione”, spiega, “prendono ogni cosa per come è, senza senso critico, e se provi a discuterne con loro ti dicono che questo è proibito, haram“.

L’ateo ha trovato una “enorme differenza” rispetto all’America — sebbene lo stigma sopravviva ancora — dove ci si può esprimere e “chiunque io conosca solitamente non bada ai miei convincimenti”. Invece in Egitto “non c’è alcuna libertà, soprattutto quando si tratta di religione”. Nel caso facesse coming out infatti avrebbe problemi con famiglia e amici, almeno “quelli non open minded“. Peggio ancora, “se poi dovessi imbattermi in qualche fanatico [...] potrei persino essere ammazzato”. In sostanza “potrei quindi essere rifiutato da alcune persone e ucciso da altre: questa è la situazione. Quindi naturalmente sarebbe folle se io mi esponessi”. È un problema comune a tutte le religioni, perché ognuna “ha i suoi fanatici” e “tutti i fanatici sono uguali”.

L’Egitto sconta un approccio condizionato dall’islam nell’affermazione della libertà di culto: solo i tre monoteismi sono ammessi, mentre altre fedi e l’ateismo sono messi al bando, perché il Corano riconosce solo ebraismo e cristianesimo di cui l’islam è considerato il compimento. Una situazione che dovrebbe cambiare, sulla base di un approccio laico. “Per qualcuno come me che non crede in nessuna religione si tratta di un nonsense“, fa presente: “naturalmente non è giusto” che ci siano certe limitazioni nella libertà religiosa.

Abuhmila spiega come è diventato ateo: anche lui “gradualmente”, fin dai 18 anni: prima “tenevo quel tipo di pensieri per me”, “perché tutte le persone intorno a me erano religiose”. Poi conosce altre persone che esprimono scetticismo. Come si sa, ciò è contagioso e crea un meccanismo virtuoso: “Così ebbe inizio il mio parlarne con altri, almeno con gli amici più stretti, e il mio poter dire ‘sono d’accordo con il vostro pensiero, non credo nelle religioni’”. In conclusione, Abuhmila risponde che la cosa che non gli piace delle religioni è l’esclusivismo: “per i cristiani, se non sei cristiano non ti apprezzano; per gli ebrei vale lo stesso, per i musulmani ancora peggio. Quindi la cosa peggiore in tutte le religioni è che se non sei come loro non ti accettano”.

È raro trovare programmi che parlino delle difficoltà che hanno i non credenti in maniera equilibrata. Ma è un fenomeno che i media iniziano ad affrontare e che non possono più ignorare, vista la sua consistente diffusione nel mondo. La speranza è che anche i mezzi di informazione italiani inizino a trattare in maniera non stereotipata ateismo e agnosticismo, senza ad esempio la necessità di mettere un qualche rassicurante prelato a “spiegare” o sminuire le loro concezioni. I mass media e la Rai in particolare — teoricamente servizio pubblico, ma praticamente colonizzato da ambienti vaticani e clericali — dovrebbero avere il coraggio di dare spazio anche alle storie, alle sensibilità e alle ragioni delle tante persone che non si riconoscono in una religione. La nostra associazione si è attivata anche su questo, chiedendo formalmente ad Agcom e commissione parlamentare di vigilanza radiotelevisiva il rispetto del pluralismo su religione e ateismo, dato l’attuale monopolio cattolico.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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