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L’accoglienza nei piccoli centri. L’esperienza dello sprar di Sessa Aurunca

Il valore del sistema di accoglienza rappresentato dagli Sprar (Siproimi, dopo le ultime riforme) è quello di essere radicati sul territorio dell’intera penisola. Dal centro alla periferia esiste una rete che consente a rifugiati e richiedenti asilo di inserirsi in esperienze di integrazione positiva dal punto di vista sociale, lavorativo e culturale.

Proprio per raccontare un’esperienza “distante dal centro”, siamo andati a Sessa Aurunca, per conoscere la storia di ospitalità di questo comune di circa 22mila abitanti nella provincia di Caserta al confine con il Lazio. 

Città di lunga tradizione storica e culturale, Sessa Aurunca ospita il primo Sprar della Campania ed uno dei primi in Italia. Nella sede di Assopace Aurunca Onlus incontriamo Antonio Torrese che, insieme a Michele Calenzo e Gianluca Sasso, è responsabile dello Sprar di Sessa.

Lo Sprar di Sessa ha una lunga tradizione. Partiamo già nel 2001 con un progetto pilota, l’allora Programma Nazionale Asilo, divenuto poi nel 2003 Sistema di Protezione Asilo e Rifugiati.

Quante persone avete accolto qui a Sessa in questi 18 anni? 

Con i vari turnover, abbiamo accolto circa 30 persone l’anno, quasi 600 fino ad oggi. Ora invece abbiamo circa 20 beneficiari, 3 nuclei familiari e alcuni maggiorenni, provenienti quasi esclusivamente dall’Africa subsahariana.

Quali sono le attività offerte ai beneficiari?

A parte le classiche attività dei progetti di accoglienza, tramite diversi tirocini formativi in aziende del territorio riusciamo a garantire l’inserimento lavorativo per quasi l’80 per cento dei nostri ingressi.

Per quanto riguarda la comunità cittadina? Qual è stata la risposta al progetto in tutti questi anni?

Per moltissimi anni non abbiamo mai avuto problemi. Solo negli ultimi tempi si è respirato un clima di tensione, soprattutto con il precedente governo abbiamo avuto parecchi riscontri di intolleranza. È diventato più difficile fare questo lavoro, il clima molto favorevole dei primi anni è molto cambiato.

Che rapporti ci sono con le istituzioni e le associazioni locali?

Collaboriamo con la Caritas da anni ma anche con le numerose realtà associative e scolastiche della città. Con le scuole in particolare abbiamo avviato progetti di alternanza scuola-lavoro, con il coinvolgimento nella nostra sede degli studenti locali. Abbiamo anche una convenzione con l’Università Orientale di Napoli per lo svolgimento di tirocini formativi.

Il legame con il territorio è fondamentale, dobbiamo agire in rete per sensibilizzare la comunità. 

E i rapporti con gli altri Sprar?

Partecipiamo alla rete Sprar regionale presentata questa scorsa estate a Napoli ma abbiamo rapporti consolidati soprattutto con le strutture di Cassino e Capua con cui ci confrontiamo spesso e scambiamo buone prassi. Rimanere in contatto e scambiare esperienze è importante per tutti noi.

Che cambiamenti ci sono stati nel sistema di accoglienza con l’ultima riforma? Cosa vi aspettate dal prossimo futuro?

Ora con il Siproimi non possiamo più accogliere richiedenti asilo ma solo chi già ha lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria. Con l’eliminazione della protezione umanitaria e l’introduzione dei “casi speciali” chiaramente si è ridotta la platea di beneficiari. Le prospettive non possono che dipendere dagli orientamenti del nuovo governo e per forza di cose siamo in attesa. Crediamo però che ci sia l’esigenza in Italia ed Europa di avere un sistema di accoglienza e integrazione che sia strutturale, fuori da logiche emergenziali. Se c’è una risposta di questo tipo c’è anche un antidoto alla ghettizzazione, all’intolleranza, a situazioni di poco controllo e di illegalità che possono sorgere.

Soprattutto nei piccoli centri, gli Sprar/Siproimi hanno un valore demografico, economico e culturale per tutto il territorio…

Tanti dei nostri beneficiari sono rimasti sul territorio, sia famiglie che singoli, che oggi hanno una vita completamente integrata in città. Chi non viene qui già con l’intenzione di raggiungere parenti all’estero si ferma volentieri e riesce a fare un percorso molto positivo di integrazione. Con i nuclei familiari questo è più semplice: se il capofamiglia lavora e i bambini sono inseriti a scuola è chiaro che si favorisce il tutto.

Per il territorio poi c’è un ritorno economico importante: tutti i fondi che riceviamo sono reinvestiti a Sessa Aurunca. Passeggiando nel nostro bellissimo centro storico si nota che siamo riusciti a rimodificarne la fisionomia. Quasi completamente svuotato, poi, questo è stato ripopolato anche grazie ai nostri beneficiari.

E quale pensi sia la differenza maggiore tra piccoli e grandi centri in esperienze del genere?

Ci sono lati positivi e negativi. È vero che l’accoglienza diffusa passa proprio per i piccoli centri ma è altrettanto vero che nei grandi centri, con la presenza di comunità straniere più stanziate, c’è una rete di appoggio in più.

Quali sono i piani di Assopace per il futuro?

Il primo step è proseguire anche nel prossimo triennio (il nostro progetto terminerà a dicembre 2019). Poi vorremmo continuare anche con le nostre convenzioni con le scuole e le associazioni.

Antonio, una domanda più personale: com’è lavorare nell’accoglienza?

Non è facile. C’è una grande responsabilità nei confronti della comunità e delle persone che si assistono. Una responsabilità che si sente sulle spalle. 

Dopo tanto tempo riusciamo ad avere più equidistanza, si riescono a gestire meglio le dinamiche più complesse, ma è certamente un impegno che non termina mai.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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