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L’Unione Europea e la sfida delle delocalizzazioni industriali

Marco D’Attoma oggi torna sul tema del mercato del lavoro per occuparsi del tema delle delocalizzazioni industriali nel quarto capitolo del dossier sul rapporto tra l’Unione Europea e la globalizzazione. Buona lettura!

Un documento molto importante per analizzare l’andamento dei licenziamenti collettivi durante la fase della crisi economica 2008-2013 è il rapporto annuale dell’European Restructuring Monitor (ERM) che presenta un’analisi retrospettiva dell’impatto dell’attività di ristrutturazione nelle imprese dell’Unione Europea. Questo rapporto riassume i trend ottenuti da un database che include i dettagli di oltre 16.000 eventi di ristrutturazione, ciascuno dei quali comprende almeno cento lavoratori coinvolti o almeno il 10% dei lavoratori rispetto alle imprese che comprendono più di 250 lavoratori. In particolare, la relazione si concentra sul confronto delle attività nel periodo precrisi (2003-2008) e post-crisi (2008-2013) al fine di identificare i cambiamenti nella prevalenza delle diverse pratiche di ristrutturazione e mostrare quali settori sono stati influenzati in modo significativo in termini occupazionali dalla recessione globale ed europea. 

Il fenomeno di ristrutturazione aziendale include anche quella dinamica di strategia aziendale dell’offshoring, ovvero della delocalizzazione, aspetto che lega il tema dei licenziamenti collettivi alla globalizzazione. Solitamente si identifica uno Stato rispetto all’ambito geografico grazie ai propri confini che vanno a determinare un territorio nel quale lo Stato può esercitare la propria sovranità. Ma la globalizzazione sembra essere andata a scardinare questo ambito perché all’interno dei propri confini lo Stato è sempre più impotente nei confronti dell’economia globale. Questo indebolimento delle forze coercitive dello Stato è dovuto ad un gioco a somma zero nel quale vi è stata una redistribuzione dei poteri a carico dei privati senza che vi sia stata alcuna decisione o istituzionalizzazione dello Stato stesso. Le imprese, in particolare le multinazionali, hanno assunto un forte carattere di mobilità attraverso la pratica del law shopping, che implica la convenienza dell’impresa a delocalizzare verso i cosiddetti paradisi fiscali soprattutto in relazione ai costi del lavoro. In Italia abbiamo avuto l’esempio della Fiat che pian piano ha cercato di dislocare la propria produzione all’estero dopo aver spostato la sede finanziaria a Londra e quella legale ad Amsterdam.

Su questo tema occorre fare riferimento rispetto all’andamento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in rapporto ad azioni che favoriscono il law shopping anche tra Stati membri dell’UE. In dottrina i casi più noti sono Viking e Lavalche hanno visto una contrapposizione tra diritti fondamentali come quello di sciopero annoverato tra i diritti fondamentali, e i principi della libera concorrenza. In queste sentenze la Corte ha fatto prevalere il principio di proporzionalità tra le due sfere giuridiche contrapposte facendo predominare in entrambi i casi le regole della concorrenza.

Nella sentenza Laval la CGUE sancisce che le normative relative al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a che un’organizzazione sindacale possa, mediante un’azione collettiva sotto forma di blocco dei cantieri come quella in esame nella causa principale, tentare di costringere un prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro ad avviare con essa una trattativa sulle retribuzioni da pagare ai lavoratori distaccati. Mentre nella sentenza Viking la CGUE sancisce che le azioni collettive finalizzate a indurre un’impresa privata, stabilita in un certo Stato membro, a sottoscrivere un contratto collettivo di lavoro con un sindacato avente sede nello stesso Stato e ad applicare le clausole previste da tale contratto ai dipendenti di una società controllata da tale impresa e stabilita in un altro Stato membro, costituiscono restrizioni alla libertà di stabilimento. Questo principio sarà poi tradotto anche nella già citata sentenza AGET Iraklis dove in quel caso ad essere contrapposto era un provvedimento statale volto a bloccare una ristrutturazione aziendale per scongiurare un licenziamento collettivo al cospetto della libertà di stabilimento.

Quindi in un certo senso con le due sentenze Viking e Laval si va a giustificare il dumping sociale da parte delle imprese, provenienti da altri Stati membri, dove persistono delle normative più stringenti verso lo Stato ospitante con norme più flessibili. Alcune Nazioni europee diventano quindi sempre meno appetibili perché il loro Mercato del lavoro viene considerato troppo rigido, e questa rigidità deriva dai relativi costi del lavoro, regole esigenti sui contratti dei lavoratori e sul salario minimo. I Paesi che non si piegano alla flessibilità incondizionata imposta dalla globalizzazione diventano preda facile delle minacce derivanti dalle imprese, ovvero la minaccia di abbandonare il Paese.

Nel report della Banca Mondiale “Doing Business” vengono classificate le economie nazionali di 190 Paesi in base alla facilità di poter effettuare investimenti diretti in un determinato Paese tenendo conto di 10 elementi che comprendono la facilità di ottenere permessi aziendali, di poter commerciare all’estero, di ottenere corrente elettrica, di risolvere situazioni di insolvenza e legate alla tassazione. Nella tassazione rientrano anche i costi del lavoro: quindi in tale classifica un costo del lavoro basso, che è un disincentivo per i lavoratori, risulta un forte incentivo per le imprese. Un’alta classificazione aziendale significa che l’ambiente normativo è più favorevole all’avvio e al funzionamento di un’azienda, e quindi sarà più favorevole ad attrarre imprese attraverso il fenomeno dell’offshoring. Nell’ultimo report del 2019 nelle prime tre posizioni ritroviamo la Nuova Zelanda, Hong Kong e Singapore, mentre tra le prime 20 ritroviamo alcuni Paesi UE appartenenti esclusivamente all’area scandinava e dei Paesi baltici. L’Italia in questa classifica si trova al 58° posto, mentre il fanalino di coda dell’UE risulta la Grecia nella 79a posizione.

Per poter effettuare delle stime circa l’attività di offshoring, l’ERM utilizza il database degli eventi di ristrutturazione per fornire alcune stime circa gli impatti sull’occupazione di questa attività compiuta da parte delle società con sede nell’UE. Però d’altra parte poter ottenere un dato preciso su questo evento è alquanto complesso a causa della natura transnazionale della delocalizzazione ed anche perché un singolo caso di ristrutturazione può comportare una combinazione di diversi tipi di ristrutturazione aziendale. Ad esempio, un’azienda che possiede stabilimenti sia in Europa che in altro Stato extraeuropeo può decidere di chiudere uno stabilimento in UE per avvantaggiare la produzione altrove: questo evento di ristrutturazione potrebbe essere considerato come una ristrutturazione interna, una chiusura o una delocalizzazione. Per tenere conto di questa problematica si vanno a considerare queste ristrutturazioni con motivazione incerta come “partial offshoring”. Alcuni casi identificati come casi di offshoring sono stati riclassificati come “offshoring parziale” in cui è chiaro dal testo che non tutte le perdite di lavoro sono attribuibili all’offshoring.

Nell’ERM sono stati identificati, seppur come forme di stime, i casi di offshoring nel periodo compreso tra gennaio 2003 e la fine di giugno 2013, con circa 711 casi di offshoring totali e 70 casi di offshoring parziale. Queste attività hanno comportato di conseguenza una perdita di oltre 266.000 posti di lavoro, l’equivalente di circa 25.000 lavoratori l’anno. Rispetto al totale delle ristrutturazioni l’offshoring, in forma totale e parziale, rappresenta l’8,2% dei casi di ristrutturazione verificatisi in questo periodo, nonché una percentuale di posti di lavoro bruciati pari al 6,2%. 

Un dato che potrebbe però stupire riguarda la concentrazione dei casi di ristrutturazione rispetto al periodo considerato. L’ERM registra una notevole riduzione dell’offshoring durante la fase di recessione globale 2008-2009 rispetto al periodo 2003-2008. Il trimestre nel quale si è verificata una maggiore perdita di posti di lavoro è proprio quello che precede l’inizio della crisi economica nel quale si sono verificate 17.774 perdite di posti di lavoro. Il motivo principale è probabilmente legato al fatto che le decisioni strategiche d’impresa vengono adottate principalmente durante periodi di espansione economica. L’attività di offshoring comporta costi iniziali molto elevati sia nello stabilimento domestico, legati ad esempio al licenziamento dei dipendenti, sia nel Paese di destinazione se l’investimento richiede costi fissi iniziali molto elevati come la costruzione di nuovi stabilimenti di produzione. Una simile pratica risulta per ovvi motivi scoraggiante in periodi di forte incertezza economica come quello post 2008.

Secondo un report di The Economist le aziende europee avrebbero invertito in questo periodo la scelta di offshoring anche per altri motivi. In primis la distanza dal proprio Mercato di destinazione è risultata un grande svantaggio sia per costi che per tempi legati al trasporto. Altro punto, e questo riguarda soprattutto le grandi multinazionali legate alla tecnologia, le imprese tendono a delocalizzare la produzione e mantenere in patria solo la parte legata alla ricerca e lo sviluppo: questo per paura di poter dissipare una parte di proprietà intellettuale nei Paesi di destinazione e questo crea delle problematiche e rallentamenti in termini di innovazione tecnologica. Inoltre, le aziende avevano capito che la Cina e altri Paesi asiatici non erano più soltanto dei luoghi produzione, ma col tempo sono diventati dei nuovi Mercati, quindi le aziende non si spostano più in molti casi solo per la rigidità di alcuni sistemi economici, ma per diventare attori di un determinato Mercato: in questo caso non si può più solo parlare di attività offshore ma di onshore.

I Paesi che percentualmente hanno rilevato il maggior numero di delocalizzazioni sono la Danimarca (17,9%), l’Irlanda (17,4%) e il Portogallo (18,1%), mentre il settore che ha subito maggiori perdite è quello della manifattura high-tech, che riguarda più del 40% delle delocalizzazioni conteggiate nell’ERM. Il dato però che va messo in evidenza è quello che lega tale fenomeno all’allargamento dell’UE nel periodo tra il 2007 e il 2013: la maggior parte dei Paesi EU-15 ha visto il maggior flusso di offshoring verso i Paesi appartenenti al gruppo NM12 che rappresenta il 32,7% del totale delle ristrutturazioni per offshoring in UE.

Infine, come era stato evidenziato dal report di The Economist nel 2013, c’è una tendenza al rientro di alcune imprese che precedentemente avevano delocalizzato all’estero: si passa dall’offshoring al “reshoring”. Ad esempio, il caso più importante di reshoring risulta il rientro di Fiat Auto Poland che nel 2012 decide di trasferire la produzione della nota Fiat Panda, che precedentemente era svolta nello stabilimento di Termini Imerese, presso il gruppo di Pomigliano d’Arco in provincia di Napoli che è consistito in un piano di assunzioni di 1450 lavoratori. Le cause che comportano il reshoringsono solitamente legate a fattori riguardanti il ciclo economico, per decisioni strategiche del gruppo aziendale per motivi come costi superiori alle attese oppure scarsa qualità del prodotto o del servizio nel Paese ospite; altre cause potrebbero essere legate alle difficoltà nella gestione degli affari data la distanza fisica, nonché le differenze linguistiche e culturali.

  1. L’Unione Europea alla prova della globalizzazione.
  2. La flexicurity come nuovo paradigma europeo del lavoro.
  3. Prospettive e obiettivi del Fondo europeo per l’adeguamento alla globalizzazione.
  4. L’Unione Europea e la sfida delle delocalizzazioni industriali.

L'articolo L’Unione Europea e la sfida delle delocalizzazioni industriali proviene da Osservatorio Globalizzazione.

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