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L’Arabia Saudita e il (mancato) rispetto dei diritti umani

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Il Consiglio Onu per i diritti umani è un organo delle Nazioni Unite, con sede a Ginevra, che ha il compito di vigilare sul rispetto dei diritti umani in ogni parte del mondo, insieme all’Alto Commissariato per i diritti umani, e di pubblicare rapporti sul suo lavoro. Del Consiglio fanno parte 47 componenti eletti dall’Assemblea Generale Onu tra gli stati membri, in proporzione fissa tra i vari continenti. L’Italia ne fa attualmente parte, il suo mandato scadrà proprio nel 2014. Questo meccanismo fa sì che del Consiglio entrino a far parte stati che certo non brillano in quanto a rispetto dei diritti umani. Come ad esempio l’Arabia Saudita, presente nell’attuale composizione.

Alle sessioni del Consiglio sono ammessi anche interventi da parte di organizzazioni non governative e istituzioni nazionali sui diritti umani regolarmente accreditate, e proprio l’intervento di una di queste organizzazioni è stata oggetto di un episodio che ha dell’assurdo. L’organizzazione in questione è l’americana Center for Inquiry, associazione umanista affine all’Uaar. Josephine Macintosh, rappresentante del Cfi, ha preso la parola per chiedere all’Arabia Saudita di liberare l’attivista laico Raif Badawi, condannato a ben dieci anni di carcere e mille frustate per offese all’islam, e il suo avvocato Waleed Abu al-Khair (finito in carcere anche lui), oltre che riformare la propria legislazione in difesa delle libertà di culto, di opinione e di espressione.

In una situazione simile ci si sarebbe aspettato che il rappresentante dell’Arabia Saudita, presente in quel momento, prendesse un impegno anche solo retorico in tal senso, oppure che rigettasse le accuse sostenendo la liceità della condanna di Badawi e la bontà delle proprie leggi. Invece no, niente di tutto questo. Il rappresentante saudita si è limitato a interrompere l’intervento per ben tre volte, definendolo fuori tema e chiedendo alla vice presidentessa di zittire Macintosh. In difesa del diritto di parola del Cfi sono intervenuti i rappresentati di Stati Uniti, Irlanda, Canada e Francia, che naturalmente hanno anche fatto presente che una volta terminata l’esposizione l’Arabia Saudita avrebbe potuto prendere la parola e replicare, ma questo non è successo. Il saudita si è ostinato a continuare a chiedere l’interruzione dell’intervento, senza mai replicare direttamente alle accuse del Cfi.

È paradossale come in un contesto in cui si dovrebbe discutere di diritti umani, tra cui naturalmente rientra a pieno titolo la libertà di espressione, uno dei convenuti si arroghi invece il diritto opposto, ovvero quello di impedire a qualcun altro di esprimere le proprie opinioni, per quanto scomode possano essere. Che oltretutto si basano su fatti oggettivi e documentano la violazione di ciò che dovrebbe essere sotto la tutela del Consiglio: i diritti umani. Di fatto il rappresentante saudita ha confermato due cose che già erano ben chiare: la prima è che la sua nazione risulta essere del tutto fuori posto in quell’assemblea, così come parecchie altre in effetti.

Parliamo di uno stato che considera l’ateismo una forma di terrorismo, in cui l’apostasia è un reato e la pena con cui viene punito è quella capitale, e che ha perfino criticato la Norvegia, sempre in sede di Consiglio Onu, perché non rende illegale la critica al profeta Maometto e dunque, secondo il suo parere, lede i diritti dei musulmani. In quell’occasione il Ministro degli Esteri norvegese commentò: «È paradossale che paesi che non supportano i diritti umani fondamentali possano avere influenza sul Consiglio, ma questa è l’Onu». Non gli si può certo dare torto. Così com’è il Consiglio somiglia più a un’assemblea di piromani che discutono della salvaguardia ambientale che a qualcosa di serio.

Questo ci porta alla seconda cosa che era ben chiara, e cioè la sostanziale inutilità del Consiglio per i diritti umani, assimilabile a quella della commissione che gli ha ceduto le funzioni. Come abbiamo detto all’inizio, il meccanismo con cui vengono eletti i membri porta a composizioni in cui gli oppressori finiscono troppo spesso per essere in maggioranza. Lo dimostrano le diverse risoluzioni che in sostanza non difendono i diritti umani, ma li limitano, come ad esempio quella del 2010 contro la “diffamazione della religione”.

Le proporzioni tra i continenti prevedono che all’Africa spettino 13 seggi, altrettanti all’Asia e 6 all’Europa orientale. Già un blocco con questa composizione rischia di essere più liberticida che garantista. Agli stati compresi nel gruppo formato da Europa occidentale, America settentrionale e Oceania, di seggi ne spettano appena 7. Com’è possibile contrastare efficacemente le violazioni dei diritti umani, quando si parte da simili premesse? Tant’è che lo stesso segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha in passato sentito il bisogno di esortare il Consiglio perché accantoni le contrapposizioni e la retorica e si impegni realmente per difendere le persone dagli abusi. Se queste sono le persone che dovrebbero difenderci il futuro è tutt’altro che roseo.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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